Barista

Alvise Balboni vive alla Madonna dell’Orto, Cannaregio è casa sua anche se per 15 anni ha lavorato come tecnico degli spettacoli in giro per l’Italia. Una vita da nomade con pasti mai sicuri e centinaia e centinaia di chilometri percorsi ogni giorno in auto o in furgone. Lavorava con base a Bologna anche la sua famiglia di genitori insegnanti e fratello musicista viveva a Venezia. La sua vita era scandita dal montaggio e lo smontaggio di apparecchiature per feste private, piccole tournée di musicisti e attori. Ha lavorato negli spettacoli di Riondino e Albanese, tanto per citarne alcuni.
Poi succede che il padre ha qualche problema fisico. Decide di tornare in laguna per stargli vicino, almeno per un mese che poi diventano tre e così via. Non riesce a rimanere senza far nulla. Un amico che gestisce il Timon, bar in fondamenta degli Ormesini, lo prende a lavorare nel suo locale. Qui pochi mesi diventano otto anni. La verità è, forse, che la vita da nomade del suono lo ha svuotato e ha bisogno di punti fermi. La famiglia, gli amici di sempre, Cannaregio ed è veramente casa. Ricaricato eccolo lavorare da altri amici quando la sua vita s’incrocia, come miliardi di altre persone, con la pandemia. Ma non dispera nonostante la disoccupazione. Ed eccolo che gettato il cuore oltre all’ostacolo a inizio anno inizia il progetto Il Tappo. È un bar che ha aperto ai piedi del ponte del Ghetto Vecchio. Locale “da ombre”, usando un termine desueto. «È un bar dove il vino si mescola alle ciacole tra amici. Dove lo stesso amico-cliente porta la sua bottiglia per farti assaggiare cosa vorrebbe trovare - racconta Alvise -. Ma soprattutto dove ci sono rapporti umani veri. E questa è la cosa più bella». —
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