Archivio Pivano Benetton dice «Torni unito»

Una proposta per recuperare senza litigi le carte in possesso dell’erede Concina

di Paolo Coltro

Non ci si ricordava di Luciano Benetton che si espone in prima persona, che prende carta e penna e scrive a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera. Lui così defilato, fuori dalle polemiche, dalle discussioni, perfino dal jet set. Eppure è successo: e la lettera, subito pubblicata dal Corriere, riguarda uno degli innamoramenti di Luciano, l’archivio che fu di Fernanda Pivano. Talmente innamorato, l’industriale trevigiano, che fu l’unico, nel 1998, a dare casa alla monumentale massa di libri e carte di Fernanda , che una casa cercava da tempo e non l’aveva trovata. Aveva, raccontava lei, chiesto a tutti, fatto il giro delle sette chiese, anche in senso letterale: «Ho domandato perfino al Vaticano». Ma niente, nessuno aveva raccolto l’invito, cioè il dono. Poi la reciproca seduzione intellettuale con Luciano Benetton, La «affettuosa interpersonalità», come la ricorda l’allora direttore della Fondazione Benetton Domenico Luciani. In quattro e quattr’otto, con molto entusiasmo, l’accordo fu fatto. Migliaia e migliaia di libri e di documenti vennero donati alla Fondazione, che si impegnò ad aprire una biblioteca a Milano e a rendere fruibile tutto quel ben di dio per letterati. Nel fondo, oltre agli apporti di Fernanda, c’era anche la biblioteca del padre Riccardo, fior di edizioni dell’ottocento messe insieme da un uomo colto. E poi i libri di Fernanda: un insieme fondamentale per la letteratura del novecento, soprattutto quella nordamericana. Un corpus invidiabile, ancor di più quando si aggiunsero le migliaia di fotografie di Ettore Sottsass, suo ex marito, scattate in tutto il mondo e catalogate con precisione certosina. Un bel pensiero di Sottsass, che tornassero assieme alle cose di Fernanda, anche se i due avevano divorziato: quelli erano stati i momenti comuni.

Ma torniamo alla lettera di Luciano Benetton: perché la scrive, e perché il Corriere la pubblica con tanta evidenza? Si intuisce che qualcosa si è inceppato nel meccanismo della donazione, ma nessuno spiega bene cosa. Che, negli anni, ci fosse stata qualche incomprensione nella gestione del lascito, con Fernanda ancora al mondo (è morta nel 2009) si sapeva, è stato scritto e raccontato. Qualcosa si capisce dalla pronta risposta, sempre sul Corriere, di Michele Concina, editore ma soprattutto erede universale della Pivano. A lui si rivolge Benetton dicendo sostanzialmente: «mettiamo le cose a posto». Dice Concina: quello che ho io delle carte di Fernanda posso darlo alla Fondazione Corriere della Sera, tu caro Benetton fai altrettanto e così tutti i problemi sono risolti. Il problema, per Luciano Benetton, è quello della riunificazione dell’archivio. Nessuno ha spiegato bene cos’è successo, men che meno Michele Concina, il giovane erede universale spuntato a sorpresa. Perché si parla di «riunificare» il fondo? Perché è diviso. Ma come si è diviso? Ecco quello che è successo: negli ultimi anni Fernanda Pivano, un po’ insoddisfatta e un po’ consigliata, ha cominciato a chiedere parte dei libri dell’archivio. Ne aveva diritto, come prestito, e le vennero recapitati a casa. Ogni settimana, una lista di decine di testi. «Mi servono, sto scrivendo la mia autobiografia», diceva, ed in effetti era così. Ma, libro dopo libro, compresi i più prestigiosi, la “crema” dell’archivio è andata un po’ di là. Perché Fernanda quel materiale non l’ha più restituito, e Concina se l’è ritrovato in casa. Ecco il senso della lettera di Benetton: riunifichiamo, senza litigare troppo. Ma i modi e i toni di questo passo fanno capire che Luciano ne ha abbastanza, ed è deciso a trovare una via d’uscita. «Senza andare di nuovo a impegolarsi negli aspetti legali, in infiniti distinguo», chiosa chi ha parlato direttamente con Benetton. Di sicuro c’è che, legalmente, la donazione non può essere né alienata né restituita. Per questo la Fondazione è pronta ad ogni accordo ma «compatibilmente con i limiti normativi». Vuol dire che l’archivio, quello che resta, continuerà ad essere della Fondazione.

Dice Marco Tamaro, attuale direttore della Fondazione Benetton Studi e Ricerche: «Quello di Luciano è l’ennesimo gesto di disponibilità: tutti noi vogliamo guardare oltre». Quindi niente repliche alle accuse di Concina, del tipo «hanno portato i due terzi dell’archivio a Treviso». E allora Tamaro sbotta: «Ma se tutti i pezzi pregiati sono rimasti a Milano! Là avevamo bisogno di spazio, Treviso l’abbiamo utilizzata come magazzino. Se c’erano copie doppie e triple, le portavamo qua. E a Milano tutto è sempre stato a disposizione di studiosi e studenti». Perché tutto l’archivio viene considerato dai milanesi concettualmente come cosa propria: per la vita milanese di Fernanda; per il fascino culturale della più grande amica italiana dei letterati; per un fattore di prestigio. Peccato che nel 1997 nessuna istituzione milanese l’abbia accolto.

Invece in casa Benetton non si smette di sottolineare come quella volta, e poi negli anni successivi, Luciano sia stato un vero e proprio mecenate. «Allo stato puro», dice Tamaro, che da due anni si interessa della spinosa questione. Mecenatismo vuol dire soldi, e numeri. Che sono questi: dal 1998 ad oggi l’archivio ha assorbito come minimo un milione di euro. Sono i costi della catalogazione di tutto (il catalogo è disponibile online, più di diecimila documenti); quelli della Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano a Milano, un appartamento con sala di lettura, uffici, due dipendenti a tempo pieno; quelli di alcune iniziative (mostre, convegni) organizzati con i materiali del fondo. Nessuno lo dice, ma qualcosa dev’essere stato speso anche per avvocati....

La presa di posizione pubblica di Luciano Benetton porta alla luce del sole una guerra sotterranea che non vorrebbe essere più guerra. Marco Tamaro è l’interprete ufficiale della posizione trevigiana: «La nostra è una proposta chiara. Diamoci da fare per trovare una soluzione che sia nell’interesse della salvaguardia del fondo. Lasciamo cadere contrasti, bizantinismi, piccolezze. Siamo disposti ad ulteriori investimenti, se l’archivio torna unitario. E va benissimo anche trovare un partner che sia gradito a tutti per rilanciare l’attività di fruizione e divulgazione. L’archivio resta a Milano, dove è. Noi vogliamo valorizzare le cose lasciate da Fernanda, e senza fare quattrini. Sia chiaro che finora non ci abbiamo guadagnato un euro». Sembrano messaggi trasversali, una risposta alle accuse, ma Tamaro frena: «Le accuse di Concina? Siamo signori, non commentiamo».

La prossima puntata? O ci sarà un accordo (pubblicato ancora sul Corriere?) o si andrà «ai materassi», come scriveva Mario Puzo, scrittore ben conosciuto da Fernanda. E saranno scintille che non fanno bene a nessuno. Men che meno all’archivio, al ricordo di Fernanda Pivano e a tutti quelli che da quella biblioteca e quei documenti vogliono ancora imparare.

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