L’appello della donna salvata da Jack Gobbato: «Una targa per ricordare il suo gesto»

Il giorno dopo la sentenza che ha condannato l’assassino all’ergastolo, parla il compagno della mestrina rapinata

Giacomo Costa
Corso del Popolo in ricordo di jack
Corso del Popolo in ricordo di jack

«L’ergastolo è la giusta sentenza, ma siamo contenti fino a un certo punto, perché è solo il primo grado di giudizio. In Italia funziona spesso così: in prima battuta si risponde con forza, specie in casi che hanno avuto una grande eco mediatica, poi però in appello o in Cassazione, con meno rumore, si finisce per rovesciare tutto.

E per noi, per me, sarebbe tremendo: Giacomo si è preso una coltellata che poteva arrivare a me, in un certo senso è morto al posto mio». All’indomani della pronuncia del giudice contro Serghiei Merjievschii, il 38enne moldavo che il 20 settembre ha ucciso Giacomo Gobbato, il compagno della donna salvata da “Jack” esprime tutto il dolore che nessun tribunale potrà davvero sanare. E lancia l’appello perché le tracce di quanto accaduto restino indelebili sulla pelle della città, magari nella forma di un monumento in onore del 26enne scomparso.

Avete seguito il processo? Come giudicate la scelta dell’ergastolo?

«In questi mesi non abbiamo mai smesso di informarci su come procedeva il fronte giudiziario. Siamo anche stati in contatto con la famiglia di Giacomo, così come con gli amici del centro Rivolta. L’ergastolo crediamo sia un atto dovuto: non tanto alla luce del clamore che ha avuto il caso, piuttosto perché stiamo parlando di un ragazzo che è morto facendo la cosa giusta, mettendosi in gioco invece di voltarsi dall’altra parte. Deve essere d’esempio e, quindi, deve esserci giustizia per lui».

L’amico di Giacomo, Sebastiano Bergamaschi, rimasto a sua volta ferito quella notte, ha deciso di non costituirsi come parte civile.

«Ho saputo. Capisco la sua scelta, coerente con il messaggio politico che lui e gli altri attivisti hanno voluto portare avanti dopo la tragedia. Ammetto che, però, io non sarei riuscito a fare lo stesso: l’ho detto anche ai genitori di Jack: quella sera avrei potuto esserci io, avrei preferito esserci io. E non riuscirei a passare oltre, oggi».

Lei era al telefono con la sua compagna, mentre veniva aggredita da Merjievschii, giusto?

«Sì, ho sentito tutto: le urla, le botte. Sono corso subito lì, ma ho impiegato del tempo e, quando sono arrivato, purtroppo era già troppo tardi. In altre circostanza avrei inseguito io il rapinatore: era la mia compagna che veniva picchiata, sarebbe stato ovvio. E magari sarei morto al posto di Giacomo».

Anche altri si sono mossi.

«Certo: i tre operai albanesi sono stati bravissimi a intervenire dopo. Li abbiamo incontrati in questura, quella sera terribile, li abbiamo ringraziati. Anche il loro sangue freddo va ricordato e celebrato».

Cosa è successo dopo?

«Sono stati mesi tremendi, abbiamo sentito di tutto. Il giorno dopo ero al supermercato e ho ascoltato per caso due persone che commentavano la notizia dicendo che Gobbato avrebbe dovuto farsi i fatti suoi, così non sarebbe morto. Non ci ho più visto: sono tornato indietro e gliene ho dette di tutti i colori. Però c’è stata anche una risposta diversa della città: le manifestazioni, i gesti di solidarietà».

Eravate presenti?

«Sì, senza farci pubblicità, ma siamo stati in prima fila al corteo, abbiamo partecipato alle raccolte di generi di prima necessità per i bisognosi, abbiamo cercato di restituire qualcosa, a modo nostro».

E la sua compagna come ha vissuto questi mesi?

«Lei non si è ancora davvero ripresa. L’aggressione è stata molto violenta, ma chiaramente a segnarla è stata la tragedia di Giacomo. Anche a distanza di nove mesi non manca mai di lasciare una pianta o dei fiori su quella cancellata, su quel tratto di marciapiede dove Jack è stato accoltellato a morte e dove ancora oggi ci sono cartelli, magliette, striscioni, fotografie e messaggi di cordoglio. Per lei è diventato un luogo importante e vorrebbe che venisse fatto di più».

In che senso?

«Sarebbe bello, sarebbe giusto che l’amministrazione comunale facesse qualcosa, trasformasse queste manifestazioni spontanee in un memoriale istituzionale, perenne. Servirebbe una targa, lì dove è caduto Giacomo, che ne ricordi per sempre il nome e il gesto. Un gesto altruistico, istintivo, che non tanti avrebbero deciso di compiere. Andrebbe fatto il prima possibile, secondo lei. E anche secondo me». —

 

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