«Quando passai la spugna a Bordin A Tokyo io e lui come Coppi e Bartali...»

Salvatore Bettiol, oggi 58enne, tra ricordi e sensazioni. Un calciatore mancato, uno dei più grandi maratoneti dell’atletica azzurra  

l’intervista

La maratona è una disciplina sportiva difficile, massacrante, dove alla base di tutto c’è l’allenamento costante, l’allenamento di tutti i giorni, dove è proibito poter pensare d’inventare qualcosa. Bisogna esclusivamente essere votati a correre per 42,195 chilometri senza mai mollare. Questo lo sa bene Salvatore Bettiol, uno tra i più forti maratoneti italiani di tutti i tempi che tra la seconda metà degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, assieme a Gelindo Bordin, Orlando Pizzolato e Gianni Poli, ha dato vita a vittorie di grande risonanza a livello mondiale. Oggi Bettiol, 58 primavere (anche se pare ancora un ragazzino) è un maratoneta felice del suo passato (mai dire ex-maratoneta. . .) .

Bettiol, come nasce la sua carriera e l’idea di diventare maratoneta?

«A dir la verità quand’ero piccolo preferivo il calcio, mi piaceva giocare a calcio e tifavo (ancora oggi) per il Milan che nel 1968 vinse lo scudetto e l’anno successivo la Coppa dei Campioni con Rivera “pallone d’oro” e Pierino Prati. Avevo otto anni e sognavo di diventare un grande calciatore, giocavo ala destra nei pulcini di Volpago del Montello. Però ero gracilino e mi lasciavano quasi sempre in panchina...»

Così è passato alla corsa?

«Praticamente sì e la prima ad essere contenta fu mia madre Raffaella (Bettiol perse il papà a 5 anni, ndr)) alla quale non piaceva il calcio. Iniziai a correre con la società di Caonada dell’allora presidente Meneghello, sotto la guida del tecnico Aldo Masi, diventato poi uno tra i più famosi speaker del Veneto (voce ufficiale per anni dell’ippodromo Sant’Artemio di Treviso) e poi con Tarcisio Lorenzin. Con loro vinsi le mie prime gare di campestre e passai alla Atletica Ponzano. Nel 1980 non avevo ancora 19 anni fui convocato per la prima volta in maglia azzurra per i campionati del mondo juniores di corsa campestre a Longchamp in Francia».

E poi il passaggio sotto la guida tecnica di Mattiello.

«Esatto, con Bepi Mattiello allenatore ho trascorso anni importanti. Un allenatore duro ma capace e grande motivatore. Il mio esordio in maratona è avvenuto con lui, e nel 1985 andai a Carpi per la maratona valida per il titolo italiano. Una gara incredibile, avevo praticamente vinto e invece negli ultimissimi metri subii la beffa da parte di Osvaldo Faustini che mi superò lasciandomi di stucco. Non vi dico lo stupore di Mattiello che come me aveva già assaporato la soddisfazione della vittoria e del titolo italiano».

L’anno dopo, nel 1986, la grande rivincita?

«Sì, e nel frattempo ero passato al Cus Universo Ferrara con il tecnico Lenzi che allenava anche Orlando Pizzolato e Laura Fogli. Ho deciso di partecipare alla maratona di Venezia che era alla prima edizione, in maggio. Una giornata caldissima, mi pare ci fossero oltre 35 gradi. Alla fine vinsi senza ottenere un gran tempo, mi pare di poco superiore alle 2h18’, ma l’importante era vincere e così feci l’anno successivo nel 1987. Un bis magico che mi proiettò nell’elite mondiale della maratona e in questo devo ringraziare anche gli organizzatori storici Piero Rosa Salva e Stefano Fornasier».

Carriera lanciata verso traguardi importanti. Quali i principali?

«Intanto dal Cus Ferrara passai alla Paf Verona del compianto presidente Pennacchioni e vinsi la Coppa Campioni di corsa campestre a squadre con Bordin, Panetta e Pimazzoni. Disputai la maratona di New York nel 1988 con la speranza di vincere come avevano fatto Orlando Pizzolato nel 1984 e 1985 e Gianni Poli nel 1986. Fu una gara difficilissima ma fino ad oltre metà gara ero in lizza per il successo finale con il britannico Steve Jones. All’improvviso fui colto da crampi e un dolore forte al gluteo. Dovetti fermarmi e nonostante tutto riuscii a tornare in gara e chiudere al secondo posto proprio alle spalle di Jones. Persi almeno due minuti e forse potevo sperare di farcela, ma non rimpiango nulla. In fondo un secondo posto a New York è sempre un grande risultato».

Il suo rapporto con la maglia azzurra com’è stato?

«Per certi aspetti molto buono, ho vinto anche la Coppa del Mondo a squadre a Seul con Faustini, Pimazzoni, Nicosia e Fantoni. A livello individuale mi è mancata una medaglia, il podio che potevo conquistare agli europei di Spalato dove mi piazzai quarto. In quell’anno ero il favorito».

Ha disputato 38 maratone. C’è un ricordo curioso?

«Durante la maratona dei mondiali di Tokio un passaggio di spugna tra me e Bordin, come Coppi e Bartali. Io passai la spugna a lui».

Oggi lavora con Bordin?

«Sì. Lui è direttore del marketing della Diadora e mi ha affidato l’incarico di responsabile sponsor degli atleti, un lavoro che mi piace».

Allena qualche atleta?

«Più che allenare seguo gli atleti del Montello Runners. Abbiamo oltre 60 iscritti ed in particolare c’è la giovane Beatrice Scarpini, 22 anni, di Mestre che lavora alla Virgin ed ha già ottenuto un buon 1h21’ nella mezza maratona a Treviso. Anni fa ho allenato Bruna Genovese, maglia azzurra che vinse a Tokio con 2h25” ».

Ultima domanda, gli africani perché sono così forti?

«Noi eravamo forse più forti di loro e gli africani c’erano anche ai nostri tempi basti pensare a Wakihuri, Hussein, Ikangaa. Però avevamo alle spalle anche una bella struttura composta da grandi allenatori e soprattutto grandi dirigenti, come Nebiolo. L’Italia era forte non solo nella maratona ma anche nel mezzofondo con Cova, Mei, Antibo, Panetta e nella velocità Tilli e Pavoni per fare dei nomi. Sono cambiati tempi e organizzazione, senza nulla togliere a Chipchoge, fresco recordman del mondo che a parte le polemiche è davvero fortissimo...». —

Valter Esposito



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