Marco Calamai, il coach delle emozioni che vince con il progetto Over Limits

Ha allenato in Serie A, ma poi ha scelto un basket speciale: oggi attraverso il pallone porta i ragazzi disabili a scoprire la gioia dello sport  
FLORENCE, ITALY - FEBRUARY 15: Marco Calamai's Basket Over Limits during the match quarter final of Coppa Italia between Scandone Sidigas Avellino and Vanoli Cremona at Mandela Forum on February 15, 2018 in Florence, Italy. (Photo by Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images)
FLORENCE, ITALY - FEBRUARY 15: Marco Calamai's Basket Over Limits during the match quarter final of Coppa Italia between Scandone Sidigas Avellino and Vanoli Cremona at Mandela Forum on February 15, 2018 in Florence, Italy. (Photo by Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images)

l’intervista

Insegnare è sempre stata la sua passione, che fosse la pallacanestro in palestra o la filosofia nelle scuole. Con la Reyer Venezia ha toccato il vertice della sua carriera in panchina, allenando in Serie A/1, ma le emozioni più grandi Marco Calamai ha iniziato a viverle quando alla fine del 1994, dopo che Livorno fu estromessa dal campionato, decise di allontanarsi dal mondo dei professionisti, senza mai smettere di insegnare ed educare, dedicandosi anima e corpo a ragazzi disabili, dando loro in mano un pallone da basket, portandoli a giocare e ad aprirsi, a far gruppo e a socializzare, a integrarsi con i normodotati con i quali giocano. Inguaribile ottimista, nemmeno lui avrebbe però immaginato che 25 anni dopo ci sarebbero stati un trentina di centri, disseminati in tutta Italia, che seguono la sua metodologia, racchiusa nel progetto Over Limits, diventato simbolo di integrazione e di educazione al vivere insieme. Venticinque anni durante i quali è stato anche docente universitario a Roma e a Bologna, formatore, commentatore tivù, ha tenuto decine e decine di conferenze, scritto libri, in particolare “Uno sguardo verso l’alto. Un progetto di pallacanestro sperimentale con ragazzi disabili”.

Come è nata questa splendida avventura?

«Mi guardavo in giro e non capivo più l’ambiente. Ero stanco, poi all’improvviso si accese la luce, dopo l’ultima esperienza a Livorno. La responsabile dell’associazione La Lucciola di Modena, Emma Lamacchia, mi invitò a visitare il centro dove lavorava con ragazzi disabili: la terapia avveniva attraverso discipline sportive individuali, come equitazione o nuoto. Mi venne l’intuizione di proporre uno sport di gruppo, ovviamente il basket che conoscevo. Partii con grande entusiasmo, come in tutto quello che faccio, ma anche qualche dubbio. Sono passati 25 anni da quell’estate del 1995. La pallacanestro ti porta a guardare verso l’alto, dove c’è il canestro, verso il cielo, una sorta di rivoluzione per chi è portato a guardare soprattutto verso il basso».

Dal professionismo ai disabili: un passaggio difficile da compiere?

«Ho sempre pensato che la persona deve essere al centro di un progetto sportivo, è stata quindi una scelta facile passare da un mondo che mi stava ormai stretto e dove determinati valori erano dimenticati a un mondo delicato, ma molto ricco di umanità e di valori come quello della disabilità mentale, arrivando a gruppi che assemblano normodotati e disabili che giocano alla pari, senza differenza. La qualità migliore di questi ragazzi? La sincerità, la spontaneità».

Il pallone come punto di partenza di tutto?

«Devo afferrare il pallone e, se me lo restituisci, potrai giocare, quindi il passaggio come dialogo. Poi ognuno di noi ha più qualità che limiti, basta privilegiare le prime piuttosto che i secondi. Infine quando giochi, ti devi divertire. Un progetto che nel tempo ha avuto il sostegno delle istituzioni sportive e non, trovando la collaborazione di tanti club, adesso siamo presenti in quasi tutte le regioni».

Piccoli segreti alla base di un grande successo?

«Sfruttare la capacità comunicativa del pallone, in grado di mettere in relazione tra loro e con gli altri persone in difficoltà, chiuse nel loro mondo di paure e solitudine. Far scoprire valori come l’attesa, l’ascolto, il tempo personale, l’importanza del piacere e della gioia nella pratica sportiva».

I suoi ricordi del periodo veneziano?

«Fantastici. Allenare la Reyer è stato un onore. Ricordo i primi approcci con Malusa e De Respinis, una persona straordinaria. Mi dissero che se Skansi non rimaneva, ero io il prescelto perché la società puntava sui giovani da lanciare. Giocatori come Daligagic, Brusamarello e Masetti se ne sarebbero andati, ma il progetto era accattivante. Ho sempre vissuto a Venezia, anche quando i dirigenti decisero di trasferirsi a Mestre. Prima accanto alla Fenice, poi in calle degli Avvocati, l’ultima casa era vicina a Piazzale Roma per comodità dovendo andare a prendere l‘auto e andare al Taliercio. Io non ero convinto della decisione di lasciare Venezia».

Partite da incorniciare rimaste nella memoria?

«Due in particolare. Il mio esordio in A/1 all’Arsenale contro Pesaro campione d’Italia, guidando una squadra di ragazzi, come Barbiero, Gianolla, Binotto, Nicoletti o Guerra, oltre a Radovanovic. Seguii i consigli di Amerigo Penzo, mi disse che dovevo limitare Magnifico. Vincemmo con oltre 20 punti di scarto. Il giorno dopo andai a caccia con mio papà, tenni il cellulare spento, alla sera trovai decine e decine di chiamate. Poi la gara di Coppa Italia con la Virtus Bologna nei quarti di finale, il sorteggio ci portò a giocare in trasferta, rimanemmo avanti fino alla fine, poi Brunamonti infilò il canestro ch ci portò all’overtime, dove perdemmo di poco. Era la Virtus di Bob Hill che vinse la Coppa, l’anno dopo subentrò il suo vice, Messina, che nel 1991 vinse la Coppa delle Coppe a Firenze e iniziò la sua luminosa carriera».

La retrocessione del 1989 e l’esonero nel ’90 con la Reyer?

«Immeritata, assurda la retrocessione. Disputammo un campionato straordinario, meritavamo la salvezza, scendemmo per una doppia beffa: la vittoria di Reggio Emilia a tavolino contro Cantù, guidata da Recalcati, per il caso-Stokes, legato a problemi di tesseramento, e quella degli emiliani a Roma all’ultima giornata con la Reyer che perse al PalaDozza contro l’Arimo. A parità di punti, la Reyer si sarebbe salvata rispetto a Reggio Emilia. L’esonero fu molto doloroso, poi presi in mano Firenze e guidai la Nazionale militare al titolo mondiale Shape. Una bella rivincita».—

Michele Contessa

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