Francesco Dal Bon al comando del Moro «Ritrovato il mio sogno a forma di barca»

la storia
Una barca che ha fatto battere i cuori, e innamorare della vela, milioni di italiani. È il Moro di Venezia, grande protagonista dell’America’s Cup 1992. Un’avventura che tenne con il fiato sospeso il mondo della vela, facendo entrare questa barca nella storia dello sport italiano e mondiale. Oggi è comandata da un veneziano, Francesco Dal Bon, che trent’anni fa fece parte di quell’equipaggio nella preparazione alle regate ufficiali, prima che la crisi economica che colpì il consorzio del Moro portasse alla riduzione del numero di velisti. Il tempo oggi ha risarcito in parte Francesco Dal Bon, che ha l’onore da alcuni mesi di riportare in regata questa meraviglia dei mari.
Come entrò in equipaggio?
«Prima della leva avevo vinto da junior due titoli italiani assoluti Laser, mi presi una licenza e alle Zattere incontrai Tommaso Chieffi, che reclutava i velisti per il team di Coppa America. Mi avrebbero preso subito, ma dovevo finire il militare. In seguito volai a San Diego per unirmi al gruppo».
Come si viveva l’esperienza del Moro negli Usa?
«Una cosa pazzesca. Gardini aveva fatto le cose più che in grande. Avevamo la base più bella, decine di persone che ruotavano attorno a noi, eravamo i più ammirati e la macchina del marketing era un colosso. Emozione indescrivibile».
Aveva 22 anni ed era una esperienza unica.
«Con modestia... mi sentivo un super Dio. Fisico esagerato, bicampione italiano ed ero tra campioni su una barca iper tecnologica per l’epoca. Ero anche il più giovane. Stavamo facendo qualcosa di enorme, ma in Italia in pochi sapevano cosa, ricordando a malapena l’esperienza di Azzurra di quasi dieci anni prima».
Una esperienza che le cambiò la vita?
«Sì, perché il mio destino era imbarcarmi sull’Espresso Egitto dell’Adriatica, come allievo ufficiale, e poi diventare pilota del porto come mio padre. Invece cambiò il mio orizzonte. Non me ne pento».
Cosa significa fare l’America’s Cup?
«Come prendere una persona da un paesino sperduto e paracadutarla a Manhattan a New York».
Come si lavorava nella preparazione del Moro?
«Ricordo soprattutto che alle 6 andavamo a correre e in palestra, poi riunione con il meteorologo per le indicazioni sul vento. Alle 8. 30 si caricavano scotte e vele e si usciva in mare per quattro-sei ore a seconda dei venti. Allenamenti oltre le 6 miglia per testare le vele, e alle 20 rientravi ed eri sfinito. Per mesi non ho quasi mai cenato, dalla stanchezza».
Tutto ai massimi livelli?
«Esatto. Gardini non lesinava su nulla. Vennero costruite cinque barche, come nessun altro consorzio in gara, con una veleria che produceva vele dalla mattina alla sera, per fare otto ore di uscita al giorno. Quel team era una macchina da guerra ricordata tuttora».
Poi, però, arrivò il taglio dell’equipaggio.
«Ci furono problemi economici, e venne decurtato il numero di velisti. Ero il più giovane e dovetti tornare a casa. Mi crollò il mondo addosso in quel momento».
Come seguì le regate per il trofeo?
«Un amico, Raffaele Bonivento, creò a Venezia il fan club del Moro, ed eravamo una cinquantina. Le regate le guardammo in una stanza del ristorante Do Forni. L’Italia intera non dormì per notti. Sembrava una cosa irraggiungibile, la televisione non era ancora globale. Il simbolo del Moro è bello ancora oggi e nessuno ha fatto di meglio. Era la prima volta che un gruppo di velisti italiani capaci, ma non super conosciuti, riuscivano a battersi con i mostri sacri».
Cosa andò storto contro gli statunitensi in finale?
«La primavera precedente alla Coppa America, con il Moro venne disputato il Mondiale di classe. Il Moro II, quello che ora è a Venezia, ruppe l’albero. Invece di sostituirlo venne portato in America il Moro III, appena varato ai cantieri Tencara. Vinse ma gli avversari capirono alcuni segreti, e furono persi sei mesi di vantaggio tecnologico. Il resto lo fecero le veledegli Usa, all’avanguardia».
Rimase colpito dal suicidio di Raul Gardini?
«Sì, lo avevo conosciuto. Saliva a bordo, si fumava la sigaretta, beveva gin con le guardie del corpo su un gommone vicino a noi. Una persona super modesta, nonostante il suo ruolo, era cordiale e vicino a tutti. Aveva le idee chiare e non faceva nulla che non lo facesse vincere. Quando si è suicidato non riuscivo a credere che un “condottiero” come lui, lo avesse potuto fare».
Òra è arrivata la chiamata dell’armatore Natali, per tornare sul Moro II.
«Mesi fa venni chiamato da un amico, cercavano un comandante per una barca speciale. Quando vidi di fronte a me il Moro II, su cui mi ero allenato a San Diego, per poco non svenni. È la più bella barca che gira in Adriatico, e ora fa base all’Arsenale. Mi sto riprendendo una chance che avevo pensato fosse perduta. Mi sono riappropriato di un sogno fatto a forma di barca. E lo dice uno che i primi passi, da bambino, li ha fatti sul ponte di una imbarcazione».
Che progetti avete?
«In primavera parteciperemo a varie regate, per ora la barca resterà all’Arsenale per la manutenzione. La seconda vita del Moro di Venezia è un grande impegno. Siamo al centro dell’attenzione, è amata da tutti e si deve far sempre e solo bene. All’ultima Barcolana, con 2200 barche da fotografare, l’articolo apparso sul New York Times aveva la nostra foto. Non è un comando normale, sei comandante di un pezzo di storia d’Italia e non solo».
Se dico 13 marzo 2020?
«Saranno 30 anni del Moro, ci ritroveremo tutti a Venezia per una grande festa». —
Simone Bianchi
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