FABIANO BALLARIN Da quel gol alla Roma di Zeman al trionfo con la maglia dell'Edo

A 38 anni compiuti la dolce sensazione di un campionato vinto «Smettere? Assurdo. Prima era un lavoro, adesso gioco veramente»
 
Scusa Ballarin, ma adesso quanti anni hai?
«Trentotto».  
E non sei ancora stufo?
«Stufo? Gioco a calcio e mi diverto ancora. Mi piace giocare, questo è il verbo giusto. Ho una carriera con tanti anni di professionismo, il calcio per me è stato un lavoro. Adesso è veramente un gioco, che mi ha fatto riscoprire tanti aspetti piacevoli. Qualche sacrificio va fatto lo stesso, ma con l'impegno e la serietà non pesa. I veri sacrifici non sono questi».  
Al giorno d'oggi fare il calciatore dilettante non basta per vivere?
«No. Girano soldi anche tra i dilettanti, ma molti meno rispetto ad anni fa. C'è stato un momento in cui certi presidenti hanno rischiato di inquinare il valore del calcio dilettantistico, per assurdo la crisi economica ha riportato, secondo me giustamente, le cifre più in basso. Per quanto mi riguarda personalmente, mi permetto di dire che ora non gioco certo per i soldi, i miei dirigenti lo sanno bene».  
Anni di professionismo ti permettono di vivere bene...
«Mi permettono di vivere serenamente. Ho guadagnato bene, ho investito, penso, altrettanto bene. Curo i miei interessi e mi sono costruito un lavoro».  
In pratica?
«Ho acquistato qualche appartamento a Venezia, lo affitto ai turisti gestendo personalmente i rapporti. Per cui mi trovo a che fare con americani, australiani, giapponesi, mi piace tantissimo conoscere gente e culture diverse dalla mia, va bene così».  
Il segreto è stato quello di non buttarli via prima. Hai resistito alla tentazione della Ferrari.
«Sono stato un ragazzo normale anche quando giocavo in serie A. Tutto qui. Sono stato fortunato, sono cresciuto in una famiglia giusta, con una compagna giusta. Non ho sentito mai il bisogno di togliermi il classico sfizio. Ma non faccio il moralista: certi calciatori hanno davvaro sacrificato la loro gioventù venendo sradicati da casa a 14 anni e catapultati in un altro mondo, per cui è normale che una volta arrivati al successo - magari dopo anni di collegio, solitudine e qualche lacrima in silenzio - abbiano cercato lo sfogo. E se si sono presi il macchinone o qualche altro capriccio, non hanno rubato nulla».  
Oggi nell'Edo Mestre sei il Grande Vecchio.
«Forse sì, nel senso che tante volte i compagni mi chiedono di raccontare episodi del passato, di quando ho giocato a San Siro, o contro Ronaldo e via così. L'altra sera sono venuti a cena da me, ho visto qualcuno incantato a guardare le maglie che ho scambiato ai tempi della A. Ho quella di Maldini, e mi vien da sorridere a pensare che lui ha la mia».  
Ti chiede qualche consiglio anche l'allenatore?
«Si parla, si discute, comunque direi di no, ed è un modo di rispettare i ruoli».  
Quale è stata la tua pazzia? Almeno una.
«Ho scelto di uscire abbastanza presto dal mondo dorato, dal calcio ricco. E non sono pentito».  
Oltre 100 partite nel Venezia. Ma si ricorda quel gol alla Roma di Zeman.
«Non mi dispiace. mezzo campo in contropiede. Ne ho fatti pochi, io scelgo un gol al Parma, di destro, in mezzo a una difesa con Cannavaro e Thuram. Il portiere si chiamava Buffon...».  
Una carriera nel Veneto, con parentesi a Cesena.
«Se non fossi così legato alla mia terra, mi piacerebbe essere romagnolo. Gente fantastica. Ricordo il presidente Edmeo Lugaresi. Ma Cesena per me vuol dire anche Zaccheroni, grande allenatore e grande Uomo, e quello spareggio con il Como nel '91. Io ero un tifoso in curva, quel giorno».  
Amici veri nel calcio?
«Sì, esistono. Io ne ho, ragazzi che mi hanno aiutato, soprattutto nel passaggio dal grande calcio alla realtà attuale. Brunetta e Cominotto sono come due fratelli. E poi tra dilettanti è più facile apprezzare il valore del gruppo. La pizza insieme fa meglio della notte in ritiro».  
Conti in sospeso?
«I tifosi del Venezia mi hanno perdonanto d'aver giocato nel Treviso. Quelli del Treviso non m'hanno perdonato la fede arancioneroverde».

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