Tutte le veneziane di Byron

Intellettuali e meretrici in tre anni di sesso sfrenato e geniale follia. Il Lord trentenne spese cinquemila sterline per i suoi amori e arrivò a vendere anche il titolo di barone
Una si gettò in acqua, disperata, un'altra fuggì con lui, una terza invecchiò malinconicamente dalle parti di Campo Sant'Angelo. Alcune erano celebri e lo considerarono come un eccentrico inglese, altre ancora erano sconosciute e lo fecero per denaro. Tutte lo amarono. George Gordon Byron, figlio di un capitano chiamato The mad Jack, (Jack il Pazzo), cresciuto in Scozia assieme alla madre, Catherine Gordon, in ristrettezze economiche, trascorse a Venezia tre anni di geniale follia ed erotismo sfrenato che segnarono la sua vita e soprattutto l'immagine della letteratura romantica.


A Venezia, Byron trentenne spese per le donne cinquemila sterline, vendette il titolo di barone, ereditato a dieci anni, per denaro e per dimenticare la Gran Bretagna, ma fu anche colpito dal desiderio d'imparare il veneziano e l'armeno, scrisse il quarto canto del Childe Harold's Pilgrimage, il Beppo e soprattutto i primi canti del Don Juan. Tre anni di genio e scandalo, trascorsi a Venezia dal novembre 1816 al dicembre 1819. Nell'isola di San Servolo se ne parla ancora. Oggi si conclude, infatti, il 33º Congresso Internazionale intitolato «Byron and Identity», organizzato da Alan Rawes della International Byron Society e da Gregory Dowling del Dipartimento di Americanistica, Iberistica e Slavistica di Ca' Foscari. Convegno che ha indagato gli influssi della scrittura di Byron sulla letteratura mondiale, i suoi rapporti con la musica e l'arte, quando il Lord inglese ammirava a Venezia la Galleria di Palazzo Manfrin e probabilmente anche la Tempesta del Giorgione. Incontri che hanno ricostruito la Venezia austriaca dei salotti e della diplomazia, ritrovando i giorni delle cospirazioni carbonare e dei convegni mondani che coinvolgevano Isabella Teotochi Albrizzi ed Ugo Foscolo. Oggi, l'intervento di Rossella Mamoli Zorzi, docente a Ca' Foscari, rifletterà sugli influssi della scrittura di Byron nella letteratura del Nord America. Legami che in parte si plasmano su un'idea libertina della scrittura e della città lagunare, un immaginario che nel caso di Byron trova la concretezza dell'avventura erotica e dissoluta.


Byron arrivò a Venezia lasciandosi alle spalle il matrimonio con Anna Isabelle Milbanke, ereditiera e studiosa di matematica, la figlia Augusta Ada, ed in particolare la maldicenza di un probabile rapporto incestuoso con la sorellastra Augusta Leight, figlia di un precedente matrimonio del padre, nonchè accuse di omosessualità, severamente perseguitata in Inghilterra. Le circostanziate lettere, che Byron scrisse da Venezia, raccontano di popolane e contesse che frequentano il letto dell'inglese, in una smania di prestazioni amorose. Storia di sesso, ma anche di fame e miseria, se Byron alternò gli incontri salottieri con l'Albrizzi e la Benzoni, ai rapporti mercenari, pagando chi a fatica riempiva la pentola. Chissà, forse oggi si parlerebbe di «sindrome compulsiva» per il sesso, ma la contingenza storica vuole che a Palazzo Mocenigo (e non solo) dove Lord Byron alloggiava, si alternassero virtuose e prostitute, intellettuali e analfabete, in un catalogo amoroso, che guarda caso nel Don Juan, prosaicamente si riassume in un misogino e convinto «finte sante, ma tutte puttane».


O almeno, così ce le racconta Lord Byron, a cominciare dalla Marianna, moglie di quel Segati che in Frezzeria ospitò Byron, appena giunto a Venezia. Amante scatenata, il cui marito consenziente (pare per denaro) accettò anche la beffa: il suo negozio di merceria (perversione del destino) si chiamava «Il Corno», ed ovviamente fu ribattezzato «Il Corno inglese». Con lei s'accapigliò più volte la fornarina, al secolo Margherita Cogni, la cui storia è narrata nella lettera che Byron indirizzò a John Murray, il 1º agosto 1819, «la più celebre lettera del Byron», come annotò lo storico della letteratura inglese, Mario Praz. Ci perdonino i lettori, se è citazione «pecoreccia», ma è Byron a dire «che il bello della Fornarina è che non sa né leggere né scrivere e così non può perseguitarmi di lettere», e peggio ancora, quando il lord legge negli occhi della Cogni la passione sottomessa («quando la chiamo vacca, mi risponde vacca tua, celenza») e le contraddizioni del corpo e della fede, mentre si fa il segno della croce, se durante l'amore suonano le campane.


Gelosa, la Cogni si gettò in acqua, forse dal balcone di Palazzo Mocenigo, mentre malinconica invecchiò un'altra amante del Byron, una sconosciuta di cui parla William Dean Howells, diplomatico americano (il diario è edito da Elzeviro) della metà ottocento, che la incontrò, «grassa peccatrice dalla bellezza sfiorita» in una bottega di formaggi che si trovava «nella calle che va da campo Sant'Angelo a San Paternian». Non bastavano lo studio (elogiato anche dai padri Armeni), la genialità e la rabbia nei confronti della madrepatria, culminata con la vendita (a Venezia giunse appositamente un avvocato inglese) della dimora di famiglia di Newstead Abbey, nei pressi di Nottingham. L'antico caseggiato gotico (un priorato del XIII secolo) è oggi di proprietà pubblica, come hanno raccontato a San Servolo gli eredi e i discendenti della famiglia Byron.


La vicenda veneziana di Byron iniziò a concludersi nell'aprile del 1819, quando il poeta conobbe la diciottenne Teresa, figlia del conte Gamba di Ravenna e sposa del vecchio cavaliere Guiccioli. Con lei se ne andò a Ravenna, facendo amicizia col fratello della ragazza, Pietro Gamba, adattandosi ad una vita quasi borghese, ravvivata dalla partecipazione ai moti carbonari. Altra storia, ormai lontana dai giorni della dissolutezza veneziana, soltanto un brandello della vita di Byron. Eppure, tre anni di scandalo e ricco spreco di una genialità che ancora segna la letteratura mondiale.

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia