Tornatore algido cantastorie di una Sicilia senza passioni
La Storia diventa mito e retorica, normalizzata in funzione del ricordo

Baarìa è esattamente come ti aspetti un film di Giuseppe Tornatore sulla memoria, sulle radici, la sua città natale, la Baarìa del titolo, Bagheria (nell’accezione dialettale), pochi chilometri a est di Palermo. Un film che, con le migliori intenzioni, cerca di essere un grande affresco, di attraversare sessant’anni della storia d’Italia per mezzo delle vicende, felici e drammatiche, di un nucleo familiare ampio, ma che alla fine si stempera in un numero infinito di dolly, di colori crepuscolari e in una musica troppo invasiva, dimostrando ancora una volta che il miglior Tornatore è quello, scabro e macabro, dell’ultimo La sconosciuta, e che il riuscito modello di Nuovo cinema Paradiso è irripetibile.
La vicenda inizia negli anni Trenta quando Cicco, un pecoraio con la fissa dei poemi cavallereschi, mette su famiglia e alleva Peppino (Francesco Scianna), che cresce nella miseria e nell’ingiustizia, esperienze che faranno maturare in lui la scelta militante di iscriversi al Pci. E come comunista diverrà consigliere comunale e tenterà, senza riuscirci, di approdare a Montecitorio. L’infanzia nel fascismo, la Liberazione, le manifestazioni (come quella per la strage di Portella della Ginestra), le occupazioni delle terre e gli scioperi sino al Sessantotto, tutto è filtrato attraverso l’occhio della quotidianità, le piccole gioie e i molti dolori di una famiglia che fa i conti con le intimidazioni mafiose e le sfortune di un destino avverso.
Eppure nonostante la genuinità dell’idea, il risultato è un film in cui la storia si deforma inevitabilmente in un mito che esalta in forma retorica il passato, come se Tornatore tentasse, per la Sicilia, quanto Sergio Leone aveva fatto per il mito americano. Lo sguardo che il regista getta sulla vita della Sicilia di ieri appare algido, anche a causa dei colori ocra che tendono a esaltare la luce, positiva e vitale, dell’isola, anziché connotarla in senso cupo e mortifero. I dolly che guardano il paese e i suoi protagonisti reiteratamente dall’alto, schiacciandoli e assieme cristallizzandoli in un quadro d’antan; la musica di Morricone, che sovrasta tutto, anche le voci e il rumore del vento; un certo gusto cartolinesco dei particolari siciliani (il pescespada, il carrettino, i limoni, i mafiosi) e il cast «hollywoodiano» in cui tanti (da Lo Verso a Lo Cascio e Bova, da Ficarra e Picone a Gullotta, dalla Molina alla Sastri, alla Madè) fanno almeno una piccola parte (e qualcuna inutile come l’apparizione della Bellucci), derubricano il tutto alla versione proletaria del modello della famiglia felice del “mulino bianco”, compreso il finale grottesco in cui i protagonisti tornano bambini e rivedono tutta la vita come in un sogno.
Ma la cosa più pericolosa che accredita il film, anche se in modo involontario, è ancora una volta una visione della storia d’Italia risolta in modo normalizzante, che smussa ansie e passioni, evita di ripensare in modo critico il passato e accredita operazioni di rivisitazione che possono torcersi contro le intenzioni del regista. Del quale forse si potrà dire, come risponde Peppino al figlio che gli chiede se è vero che ha un cattivo carattere, «noi volevamo abbracciare il mondo, ma abbiamo le braccia troppo corte».
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