Sir Oliver Skardy: «Marghera, la Liverpool italiana che le suonava a tutti»
Il fondatore dei Pitura Freska, al secolo Gaetano Scardicchio, ripercorre la storia della periferia veneziana dagli anni ‘60 a oggi

Quella di Marghera è la storia di una periferia, di un entroterra dove andavano a finire tutti quei veneziani che avevano meno soldi, che non potevano restare nella “città dei ricchi”.
Eppure, quando ci sono cresciuto io, era una terra in fermento: i servizi non mancavano, le botteghe erano ad ogni angolo e, soprattutto, ogni magazzino, ogni scantinato, sotto ogni appartamento e dentro ogni palazzo c’era la musica: a Marghera, tra gli anni ’60 e i ’70, si sentiva che qualcosa stava per esplodere in tutto il mondo e lo si viveva davvero, si voleva esserne protagonisti.
C’era una band per ogni condominio, i ragazzini si costruivano gli strumenti: i fustini del Dixan diventavano batterie, le vecchie radio, quelle degli anni ’50, del dopoguerra, amplificatori per le chitarre.
Senza mai fermarci eravamo passati dal giocare con le cerbottane ad ascoltare ogni gruppo che ci capitava di trovare in giro. E a sognare anche noi una carriera musicale: ci abbiamo provato tutti, la sognavamo tutti, poi quasi nessuno ci è riuscito, perché l’ignoranza dilaga e ancora oggi si pensa che tirare una pallonata sia un lavoro vero, suonare uno strumento no.
A Marghera la musica era ovunque, poi però la si provava a portare a Venezia: si suonava in ogni campo, in ogni locale, a ogni occasione buona. E la visione che condividevamo era quella di trasformare il nostro entroterra operaio in un territorio di riscossa e di rivalsa artistica, come è successo attorno a Bologna, a Milano.
Marghera era come Liverpool: si viveva all’ombra di una città più famosa, si viveva di fabbrica, si temeva la disoccupazione – quella sì – e si usava la musica per unirsi, per puntare a qualcosa di più.
E poteva funzionare: la laguna è sempre stata un trampolino internazionale, anche mettere assieme un concerto improvvisato in un campiello poteva regalare opportunità impensabili, se in quel momento passava un turista americano o giapponese che poi faceva il tuo nome altrove, che faceva in modo che ti venissero a cercare.
Dagli anni ’70 in poi, e soprattutto negli anni ’80, le cose sono cambiate: in tutto il territorio si è innestata una criminalità sempre più forte, e questo a Marghera si è tradotto soprattutto nella diffusione dell’eroina, che ha distrutto tantissime persone.
La corruzione ha causato un tracollo generalizzato, quando sono arrivati gli anni ’90 e le nuove tecnologie non c’era più un tessuto sociale in grado di resistere: oggi vediamo i ragazzini che credono di avere tanti amici solo perché li contano dentro un telefonino, poi magari non si sanno parlare tra di loro.
E, contemporaneamente, a Venezia non si suona più: non c’è più spazio per i fenomeni emergenti, non si incontra più qualcosa di nuovo; c’è solo il grande palcoscenico di piazza San Marco, con le sue logiche da grandi nomi, sicuri, concordati. Perché la musica ha questo difetto: rompe i coglioni, ai potenti, a chi vuole che le cose restino come sono.
Io in Piazza ho suonato nel 2008, è stata un’emozione grandissima, però lo è stato anche esibirsi per la prima volta sul palco del Vapore (vero simbolo del legame tra la musica e Marghera), o anche in un campo.
Quello che abbiamo fatto – coi Pitura Freska e anche dopo – è stato cercare di staccare Venezia da quei cliché che non tramontano mai: all’epoca ogni servizio del Tg che mostrasse la città doveva avere in sottofondo Vivaldi, per forza la musica del ’700, qualcosa di ridicolo.
Oggi, purtroppo, è ancora così: la guerra sociale che ha scacciato dal centro storico quattro quinti dei suoi abitanti è stata vinta da chi l’ha iniziata, i politici italiani sono tra i più pagati del mondo e continuiamo a tenerceli, perché nessuno protesta più.
Suonando abbiamo sempre provato a far pensare la gente: si sorride, ma pure la fortunata “Pin floi” è una critica; ironica, ad ampio raggio. Ma oggi nessuno vive neanche più il territorio: la Marghera che suonava e che stava in strada non c’è più, nei parchi si vedono solo madri bengalesi che spingono il passeggino, loro sì che ci provano a prendere possesso degli spazi.
È bello, è giusto, perché noi abbiamo dimenticato come si fa?
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