Venezia, il clochard molesto a processo con centoventi capi d’accusa
La procura veneziana contesta a Pasquale Aita quaranta Daspo mai rispettati, oltre a ottanta reati più pesanti come il danneggiamento: udienza il 16 aprile

Quello a Pasquale Aita - il più noto clochard della città, doppia cittadinanza italo-tedesca che da oltre dieci anni ha trasformato piazzale Roma nella sua residenza - ha assunto i contorni di un “maxi-processo”, dopo la fusione di due filoni di accuse: da una parte i circa 40 capi d’imputazione legati al mancato rispetto dei Daspo e delle sentenze del Tribunale che gli ordinavano di stare lontano da piazzale Roma e da Venezia (divieti regolarmente violati).
Dall’altra gli oltre 80 capi di imputazione ben più pesanti che hanno contestato il pubblico ministero Stefano Buccini e l’ex procuratore Bruno Cherchi, per episodi (alcuni anche violenti) che si erano susseguiti in un periodo particolarmente “agitato” e violento per Aita, solitamente noto per le sue cantilene cariche di insulti verso il politico di turno, sindaco o presidente degli stati uniti che sia; contro i carabinieri davanti alla cui stazione si piazza con il carrello della spesa con i suoi averi.
Poi c’era stato un pugno in pieno volto a un giudice civile che l’aveva ripreso perché urlava davanti al Tribunale: «Quel giorno avevo mal di testa forte, stavo male, aspettavo l’ambulanza per farmi ricoverare in ospedale», si è giustificato ieri in aula - difeso dall’avvocato Federico Tibaldo - nel corso del processo davanti al giudice Marco Bertolo.
I due filoni sono stati riuniti, ma il giudice ha deciso di non trasformare il maxi-fascicolo in un maxi-processo, ma di provare a stringere i tempi: ha così aggiornato l’udienza al 16 aprile, chiedendo al pubblico ministero Riccardo Palma di convocare tutti i testi d’accusa (una quindicina tra carabinieri, agenti e parti lese) e di prepararsi anche alla discussione, per poter andare a sentenza al massimo entro il mese di aprile.
Processare Pasquale Aita non è semplice: tanto parla quando è nel “suo” piazzale, tanto interviene durante l’udienza.
Conosce il codice, sa di avere diritto a “spontanee dichiarazioni”. E numerose ne ha fatte ieri, dipingendosi come «uno che difende i deboli dai politici e dal potere».
Le contestazioni a suo carico sono, appunto, oltre un centinaio e in alcuni casi si tratta non delle semplici accuse di imbrattamento per le centinaia di scritte spray che per un anno hanno ricoperto il palazzo di giustizia con insulti a politici e magistrati, costringendo Veritas a costosi interventi di pulizia, per poi subito tornare a imbrattare i muri.
In una di queste occasioni aveva anche reso inservibili a colpi di vernice le telecamere esterne, commettendo quindi un reato ben più grave del semplice vandalismo, almeno secondo le accuse mosse dalla Procura: danneggiamento di sistema informatico (che, sulla carta, prevede una pena fino a 5 anni di reclusione). Aveva anche rivolto insulti razzisti contro una delle guardie giurate del tribunale, una donna di origini straniere.
Parola al Tribunale.
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