«Io, che ho ricevuto una seconda vita»
Scampato a uno spaventoso incidente: «Ragazzi, non fate scemenze»

Sono passati esattamente due anni e si può dire che questa brutta avventura sia finita. Parlo di quel trentenne che nella notte tra il 9 e il 10 dicembre 2006, dopo aver assistito, a Marghera, a un concerto di Vinicio Capossela, ebbe la pessima idea di sdraiarsi sul muretto del sottopassaggio del primo binario della stazione di Mestre; e (complici troppo sonno e qualche birra) di addormentarsi, finendo col precipitare sulla sottostante scala di marmo da un’altezza di tre metri e mezzo, con i risultati che si possono immaginare. Ero io, Vittorio Tonon, collaboratore della Nuova Venezia. E sono qui a raccontarla.
Quella notte.
A dire il vero, di quella notte e delle tre settimane successive, in cui fui mantenuto in coma farmacologico, posso raccontare ben poco. Mi è stato riferito che subito dopo la caduta venni soccorso da alcune persone che si trovavano in stazione e subito dopo dalla Polizia ferroviaria e dal personale di un’autoambulanza dell’ospedale Umberto I, che mi praticò le prime cure. Trasferito al Pronto soccorso e poi in Rianimazione, sembrava proprio che non dovessi farcela. Avevo le ossa del viso e di una parte del cranio ridotte in poltiglia e, come se non bastasse, anche una vertebra fratturata. Eppure...
Parole.
Mia madre passava giornate intere accanto al mio letto e, incurante dell’assicurazione datale sulla mia assoluta impossibilità di sentirla, mi parlava, raccontandomi storie e leggendomi poesie. Quando mi rilesse una di quelle poesie, passata la bufera, ebbi la sensazione di udire qualcosa di familiare, come se la conoscessi già. Ogni mattina i miei genitori aspettavano con trepidazione le 7, ora in cui potevano telefonare in Rianimazione e con indicibile sollievo si sentivano rispondere che ero «stabile» e «apiretico» (la mancanza di peggioramento e l’assenza di febbre furono fondamentali). Quello che si temeva di più erano le infezioni, difficili da evitare in una situazione come la mia.
Interventi.
Alla fine di dicembre, il 20 e il 28, subii due interventi: nel primo, il direttore dell’unità operativa di Chirurgia Maxillo Facciale, dottor Leonardo Priore, e il dottor Michele Franzinelli mi ricostruirono la testa e il viso utilizzando tecniche e materiali all’avanguardia; nel secondo, i sanitari della divisione di Neurochirurgia, diretta dal dottor Giuseppe Trincia, protessero la vertebra lesionata assicurandola alle due adiacenti. Furono, entrambi, interventi che durarono molte ore, dai quali uscii un po’ bionico all’interno ma all’esterno, a parte i segni lasciati dalle operazioni sul cuoio capelluto e sulla schiena, incredibilmente uguale a prima.
Il risveglio.
Poi mi svegliarono e allora trovarono risposta le domande che i medici e i miei genitori si ponevano ormai da tanto tempo: sì, muovevo le gambe, vedevo (con qualche limitazione), sentivo (bene da un orecchio, meno dall’altro), riconoscevo le persone e, quando mi venne tolta l’intubazione, cominciai a dire parolacce terribili. Insomma ero io. Fu allora che gli stessi medici parlarono di miracolo. Ai primi di gennaio fui trasferito nel reparto Maxillo facciale e cominciò un lunghissimo cammino di recupero non tanto fisico (camminai perfettamente fin da subito), quanto psicologico.
Umore.
All’inizio ero irritabilissimo e passavo le notti delirando, cantando e insultando il mio compagno di stanza, i medici e gli infermieri, che ebbero con me una pazienza da santi. Ogni tanto facevo volare qualche flacone di fleboclisi e mi spiegarono che quella che stavo vivendo era una sorta di crisi di astinenza causata dalle sostanze che mi erano state iniettate durante il coma farmacologico per mantenermi in sedazione. Contemporaneamente sviluppai una fobia per aghi, pinze e forbici che complicò enormemente il compito di chi mi aveva riportato in vita ed era deciso a mantenermici.
Amici.
In questa fase l’affetto e l’amicizia che mi dimostrarono, in particolare, Priore e Franzinelli, mi furono di enorme aiuto. Sia durante la mia permanenza in Rianimazione, sia poi quella in reparto, sostavano fuori dalla mia stanza tantissimi amici, che nei primi tempi dovevano accontentarsi di ricevere notizie dalle pochissime persone autorizzate a starmi accanto. Successivamente poterono venirmi a trovare ed ebbi per la prima volta la consapevolezza di quante persone mi volessero bene e stessero in pena per me. Questo mi diede una grande forza, anche se qualcuno, al vedermi conciato in quel modo, con una cicatrice sulla testa che pareva il fermacapelli di una ragazza anni sessanta e un cerotto che copriva il buco lasciato dalla tracheotomia, quasi svenne.
Meninge.
Dopo pochi giorni dalla mia discesa dal letto del reparto, mentre passeggiavo nel corridoio con mio padre indossando il busto ortopedico senza il quale mi era proibito alzarmi, il dottor Franzinelli fece una brutta scoperta: il mio continuo soffiare il naso non era dovuto a un raffreddore, bensì a una lacerazione della meninge (peraltro in uno dei pochi punti in cui non avevo riportato fratture e i medici non avevano dovuto intervenire) e al conseguente colare di «liquor». Dovetti quindi tornare immobile a letto con una sonda sulla schiena per diminuire la pressione endocranica, perché la membrana si risaldasse da sola. Cosa che, fortunatamente, avvenne presto.
Dolore.
Nel frattempo, per perfezionare l’assetto di mascella e mandibola, queste mi vennero a più riprese bloccate con ferule. Erano dolorosissime da applicare e mi costringevano a mangiare brodaglie immonde che però allora, per via della fame, trovavo quasi sopportabili. Dimesso in febbraio dall’Umberto I, passai per un paio di settimane al San Camillo del Lido per la riabilitazione soprattutto psicologica. Lì, tra un gran numero di altri ragazzi che avevano subito incidenti (soprattutto stradali), molti dei quali stavano in sedia a rotelle, provai un’immensa solidarietà e avevo l’impressione che fossimo i reduci di una guerra. Alcuni li avevo visti arrivare all’Umberto I mentre mi trovavo là: venivano portati soprattutto il sabato notte e la domenica ed erano i sopravvissuti delle cosiddette stragi del sabato sera. La notte era dura, perché spesso qualcuno gridava nel sonno o si lamentava ad alta voce. Io quasi mi vergognavo di essermela cavata tanto a buon mercato.
A casa.
Tornato a casa, seguirono lunghi mesi di convalescenza, durante i quali compii vari tentativi di riprendere il lavoro: scrissi alcuni articoli, ma non trovavo la forza né l’entusiasmo che mi avevano portato a questa professione. Ero come spento e mi pesavano soprattutto due menomazioni che (assieme alla diminuzione di vista e udito e alla perdita pressoché totale dell’olfatto) mi erano rimaste irrisolte: la tracheotomia che non si chiudeva e soffiava al minimo sforzo e una fistola sul palato che mi faceva uscire l’aria dal naso quando parlavo e l’acqua quando bevevo o mi lavavo i denti. Per la bocca, i medici mi avevano fornito un palato artificiale a incastro, che riduceva di molto gli inconvenienti, ma non del tutto.
Coraggio.
Bisognava trovare il coraggio di affrontare un nuovo, duplice intervento e, con la fobia che mi ritrovavo, non era uno scherzo. In questo periodo, interminabile, fui aiutato da vari psicologi e dal fisioterapista dott. Fabio FabioDall’Omo, che tra l’altro è anche un amico. Ma la fobia per gli strumenti chirurgici, siringhe comprese, non accennava ad andarsene e la mia fiducia in me stesso era scesa sotto i tacchi. Poi, quasi d’improvviso, sollecitato più e più volte dal dottor Priore e dal dottor Franzinelli, un mese fa trovai il coraggio di presentarmi all’ospedale dell’Angelo, dove il reparto era stato nel frattempo trasferito. Sorprendendo me stesso per primo, mi lasciai bucherellare senza far drammi. Stavolta l’operazione durò «solo» qualche ora, ma mi rimise a nuovo. E l’autostima riprese a salire.
Recupero.
Ecco, l’ho raccontata così, in modo abbastanza leggero, senza calcare la mano sugli aspetti drammatici (che naturalmente non sono mancati), sull’angoscia dei dubbi sulla mia stessa sopravvivenza (fortissimi dubbi, specie all’inizio), sulla paura retrospettiva per ciò che sarebbe potuto accadere: vengo continuamente a conoscenza di possibilità raccapriccianti che vanno dalla paralisi all’impotenza, dall’incontinenza all’incapacità di gustare i cibi e così via. Alcuni medici mi dicono che un recupero completo della vista è impossibile, ma altri mi danno qualche speranza.
E’ fatta.
Comunque, come si vede da queste righe, lavoro senza problemi al computer, leggo con piacere e me ne vado in giro senza più urtare gli altri passanti, perché ci si abitua a muovere gli occhi e la testa per recuperare quello che non si riesce a vedere con un solo colpo d’occhio. Certo, probabilmente non riuscirò mai a farmi la patente di guida, ma ho la fortuna, come mi ha consolato un medico, di vivere a Venezia. Quello che voglio comunicare ai giovani come me, e a tutti coloro che hanno la tendenza a commettere imprudenze, è che le conseguenze possono essere molto, molto peggiori di quelle che ho subito io. Fate attenzione, dunque; ne vale la pena.
Genitori.
Due ultimi episodi voglio citare: preparando i miei genitori a quel risveglio che si annunciava come imminente, una dottoressa di Rianimazione li avvertì che dopo traumi di questa portata, è frequente che i pazienti mutino carattere, diventando irritabili, polemici e scontrosi. «Più di prima è difficile», rispose mio padre. «A volte però - disse allora la dottoressa - il cambiamento è inverso e diventano più gentili, sensibili e, in una parola, buoni». Credo sia andata così. Poco dopo il mio risveglio, mentre mi toccavo la testa con dita incerte e non riconoscevo le curve della fronte e della mia faccia sotto la pelle, chiesi a mio padre: «Ma dov’è finito l’altro corpo?». Credo abbia pianto.
Argomenti:vittorio tonon
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