Ginevra Lamberti: «Venezia tra gatti, gabbiani, garzette: un bestiario in calle»

Una cosa che a volte si sente dire di Venezia ha a che fare con il suo essere bellissima ma distante, troppo distante dalla cosiddetta natura. Noi però la natura non sappiamo più che cosa è e forse non lo abbiamo mai saputo.
È probabile che abbiamo smesso di saperlo dalla prima volta che un essere umano ha piantato coscientemente un seme nella terra, ma fa niente, continuiamo pure a usare questa parola come se la natura fosse una cosa incontaminata e distinta dalla nostra specie di disgraziati megalomani.
La disgraziata megalomania della nostra specie ha dato adito a molti fenomeni nefasti ma, d’altro canto, ha pure generato alcune situazioni incredibili. Una di queste è senza dubbio l’aver messo, a un certo punto, una città di pietra a bagno nell’acqua e fare in modo che non sprofondasse dopo cinque minuti.
È una storia che sappiamo a memoria, nei secoli e nei decenni ne abbiamo scritto tanto e di tutto, eppure ancora non ci capacitiamo di questa creatura inorganica con tutte le caratteristiche per essere effimere e che invece continua a esistere e a farsi calpestare da milioni di piedi.
In questa città di pietra a bagno nella sua tinozza vagamente stagnante è ovvio che di alberi e prati ce ne siano pochini, circoscritti a sparute aiuole e ad alcuni parchi e giardini. Di sicuro non ci possiamo trovare volpi, scoiattoli, cinghiali, faine, talpe, tassi e ghiri. Così, di Venezia, a camminarci veloci calpestando i masegni con passo pesante e testa bassa da ariete per farsi strada tra i turisti, si potrebbe quasi pensare sia una città senza sangue e senza linfa. Invece Venezia è ricca di sangue animale, ma questo sangue animale è diverso da quello che si incontra in terraferma. Così come la città intera, il sangue degli animali di Venezia ha la caratteristica di collocarsi a metà tra le sfere dell’esistere.
Un tratto tipico degli animali domestici che vivono a Venezia è infatti quello di essere sempre un po’ selvatici, di restare sempre un po’ ferini. Allo stesso modo gli esemplari di fauna selvatica che si aggirano per calli, campielli e canali sono non di rado più domestici di bestie analoghe che si incontrino altrove.
A Venezia, un cagnetto molto amante dei divani e dei cuscini finirà comunque con il correre nei campi (che come sappiamo non sono campi di grano ma campi di pietra) come se la città non fosse una città ma un grande prato di campagna. Il gatto di un proprietario sarà in realtà il gatto di tutti.
Il piccione non avrà remore a picchiettare alla finestra se, dopo lunga osservazione, avrà capito che lì dentro abitano persone gentili e propense a offrire una briciola (dopodiché seminerà il panico cercando di avviare una colonia intera sul davanzale, quindi no, anche se sono molto simpatici alimentarli non è una buona idea).
Perfino i giovani gabbiani, prima di trasformarsi in sanguinari rapaci-rettili, sono dei grigi mendicanti lamentosi che stringono il cuore. Si aggirano sciabattando con le zampe palmate tra gambe e piedi umani come fossero pronti a farsi mettere al guinzaglio.
Topi e ratti fanno eccezione. Sono consapevoli di non poter essere amati neanche per un attimo, neanche dopo che la cinematografia per l’infanzia li ha emancipati con il cartone animato Ratatouille. Attraversano le calli nella notte, si tuffano in acqua con eleganza olimpionica e nuotano verso i loro oscuri compiti di sopravvivenza.
Una volta, camminando lungo una fondamenta, ho sentito un lamento e mi sono voltata cercandone la provenienza. Veniva dal canale, dove un gabbiano galleggiava placido.
Reggeva un povero topo per la testa, stretto e morente nella morsa del becco. Non avevo altro da lanciargli addosso che una scarpa, e ho ritenuto non fosse opportuno farlo. Mi sono allontanata veloce, a testa bassa come un ariete anche se la fondamenta era deserta e non c’era nessuna folla da fendere.
Ho pensato che stavo lasciando la natura (ma che cos’è la natura?) al suo corso. Che non bisogna immischiarsi e che comunque pure quel gabbiano stava facendo il suo mestiere.
Ho pensato al cormorano con le ali aperte che avevo visto al crepuscolo sul tetto della Scuola Grande di San Rocco. Dopo una qualche immersione si asciugava le ali per poter tornare a volare senza impicci, sembrava Batman.
Chissà quanti pesci aveva ingollato quel giorno col suo lungo collo. E pensavo alla piccola garzetta bianca con le piume smosse dal vento che fissava il niente dal tetto di un quarto piano che ho a lungo abitato. Era il 2018, o il 2017, certa fauna si muoveva verso le zone più interne della città in modo inedito.
Cercavano cibo? Cosa mancava fuori, in laguna? Che cosa pensano tutti loro quando li sorprendiamo a guardarsi intorno dopo una buona caccia di briciole, di rifiuti, di pesci o topi?
Non lo sappiamo, fermiamo a volte però i nostri passi e fermiamoci a osservarne i piccoli occhi di papere al sole, di passerotti inferociti che aggrediscono una patatina avanzata da un aperitivo, di gatti enormi o smagriti con gli occhi appiccicosi per la vita salmastra, né domestica né selvatica, sia legata che ferina.
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