ELEZIONI COMUNALI A VENEZIAA casa di Brunetta: "Incazzoso e orgoglioso, ma buono come il pane"

Le abitudini del ministro Renato Brunetta, candidato sindaco. Dietro la fila di yogurt magri una foto che lo ritrae 10 anni e 12 chili fa. "E’ un deterrente per non ingrassare", spiega
VENEZIA. Renato Brunetta è uomo di solide abitudini. Ogni mattina si sveglia prestissimo incalzato dallo stesso pensiero, oddio quante robe ho da fare oggi, si fionda giù dal letto, scende la scala a chiocciola, attraversa il corridoio a piedi nudi e arriva nella cucina disegnata da Tobia Scarpa dove lo attende la prima prova della giornata, politicamente irrilevante ma personalmente ordalica.


La prima prova, che si ripete ogni giorno, è il confronto con il suo frigorifero nel quale, dietro gli yogurt magri messi in fila come soldatini, lo guarda un altro Brunetta, fotografato mentre pesca chissadove dieci anni e dodici chili fa. Dice: «La tengo qui come deterrente per non ingrassare», rinunciando a trovare consolazione dai succhi di frutta light, dalle marmellate senza zucchero e dagli Actimel che piantonano il suo frigo un tempo glorioso.


Superidratato da spremute e kiwi, quindi in splendida forma, seduto nell’angolo preferito del suo divano preferito della sua ordinatissima casa a Dorsoduro, Brunetta si presenta: «Sono passionale, determinato e buono come un pezzo di pane». Buono? «Buono. Magari sono un po’ incazzoso però sono un pezzo di pane».


Renato Brunetta, 60 anni a maggio, economista, politico, editorialista, ministro della Pubblica Amministrazione e Innovazione, professore ordinario di Economia del lavoro, per la seconda volta candidato sindaco di Venezia per il centrodestra, dieci pagine su Wikipedia, un’ottantina di lavori pubblicati, sotto scorta da 25 anni, irruente, polemico, tenacissimo e, poichè la passione non può esprimersi disciplinatamente, anche uomo dal vaffa facile. «E’ liberatorio» dice.


Questo è quello è. Renato Brunetta, però, avrebbe voluto essere (anche) qualcos’altro. Un fotografo, ad esempio, non per una questione estetica ma di democrazia. «Più che possedere un’opera d’arte preferisco condividerla con gli altri, per questo mi piacciono i musei e per questo mi piace la fotografia, perchè ha i multipli».


Ancor più del fotografo, avrebbe voluto fare l’architetto e si vede. La sua casa veneziana è una continua citazione scarpiana: le travi, il corrimano di ferro arrugginito, il parapetto a carabottino, il legno dei pavimenti, il gioco di pieni e di vuoti. «Sono un architetto mancato» dice Brunetta che, per consolarsi dell’occasione perduta, negli anni si è ampiamente indennizzato con stampe, quadri, vetri, con la chaise-longue di Le Corbusier, la dormeuse di Mies Van Der Rohe, la poltrona in pelle nera di Eames e con una collezione di tappeti antichi, quelli che «hanno un’anima», comperati con i buchi e il bordo liso perchè altrimenti avrebbero avuto un prezzo insostenibile.


Dicono che, ovunque sia e con chiunque sia, Brunetta fermi la macchina non appena vede un piccolo antiquario, un negozio di arredamento, un mercatino, un robivecchi in odore di buon gusto. Allora, con riflesso pavloviano, scatta il Brunetta artistico, quello che magari avrebbe potuto essere se il destino avesse mosso i suoi fili diversamente.


Invece Renato Brunetta nasce povero, figlio di un venditore di souvenir, ultimo di tre fratelli. Abitano in nove, con la zia vedova e i suoi tre figli, in novanta metri quadrati a Cannaregio. E questo lo sanno anche i sassi. Si sa meno, anche se è immaginabile, che da bambino era - per sua definizione - una peste. «Ero sveglio, curioso, attento a tutto quello che accadeva» racconta. In casa non c’erano libri, tranne quelli delle magistrali che avevano usato i suoi fratelli e che, al momento opportuno, passarono a lui perchè non c’erano soldi per comprarne altri.


Però Brunetta gode di una buona stella che ha il nome di una supplente di filosofia che si accorge di lui e gli dice: «Renato, guarda che hai una testa diversa dagli altri». «Quella frase - racconta - ha cambiato la vita».


Brunetta ha 16 anni, incomincia a studiare greco di notte e passa al liceo classico Foscarini, dove non deve aver avuto vita facile. Si laurea a Padova in Scienze politiche, è contro il ’68 («un imbroglio messo in atto dai figli di papà»), fa una montagna di gavetta, ingoia un bel po’ di rospi, diventa professore incaricato, e inizia a fare «il consigliere dei principi». Craxi, Amato, Ciampi.

Sono gli anni Ottanta. Convinto che dopo i due mesi e mezzo di vita una persona non cambi più, Brunetta è già quel che sarà domani, cioè oggi. Uno che parla per punti esclamativi. Uno che ripete cento volte al giorno, dai, forza, andiamo avanti. Uno sul quale la competizione ha un effetto taumaturgico. Uno che te le dice sul muso e che se le ricorda tutte: quelle che dice, quelle che gli vengono dette e anche quelle che tace.

Impulsivo, orgoglioso, spesso con la furia sulle labbra, talvolta troppo, permaloso, testone, puntuale, mai pago, mai sazio (per forza), più libero di altri e governato dal fortissimo senso del dovere che abitò suo padre, Brunetta non dimentica mai da dove arriva e ha sempre chiaro dove vuole arrivare.


«E’ così da quando ci siamo conosciuti, 35 anni fa - dice Marco Cappelletto, suo amico e avvocato - generoso, leale e attento a incassare i risultati della sua fatica, senza mai cercare crediti che non siano suoi. E’ un uomo che si è guadagnato ogni risultato della sua vita e, probabilmente anche per questo, è sotto sforzo perenne con se stesso».


Una volta, ad esempio, erano a cena nella sua casa di Todi - cena sostanziosa - e Brunetta ha preteso che i suoi ospiti finissero tutto quello che aveva cucinato fino all’ultima briciola. Esagerato, direbbero i maligni. Rispetto del denaro, risponderebbe lui, perchè sua madre gli aveva insegnato a mangiare gli yogurt scaduti da qualche giorno e, anche se oggi potrebbe comprarsi dieci banconi di latticini, non butta via niente.


Gli eventi, che non hanno cambiato la sua natura, l’hanno però definita meglio riuscendo a smussare qua e là le asperità che un altro amico di gioventù ricorda come pungiglioni velenosetti. L’evento capitale, però, sarebbe stato l’incontro con Berlusconi, ai seminari di Aspen. Erano seduti vicini per via del cognome e si sono intesi subito. Poteva finire lì. Invece, dopo qualche tempo, Berlusconi gli chiese se poteva dargli lezioni di economica.


Due volte alla settimana, a lui, a Bonaiuti e a Letta. Così andò molto avanti.

Quindici anni dopo, qualcuno che gli vuole bene garantisce che è anche migliorato. Di certo ha messo fine alla stagione gilettosa, «perchè con il gilet si vede subito se uno ha la pancia», si è consacrato alle camicie Brooks Brothers e ancora non si è fatto lo smoking perchè si considera «sufficientemente anticonformista». Per le foto ufficiali ha optato per un primo piano sostenuto da un pugno (suo) e, quando è a Venezia, continua a comperare i giornali all’edicola di San Barnaba e a leggerseli in campo Santo Stefano che chiama «il mio ufficio».


Gli è rimasto intatto, invece, il timore prudente per un certo tipo di cattiveria che ogni tanto lo azzanna alle caviglie. Ad esempio il battutone di Gene Gnocchi sui suoi salti dal tavolo della cucina - Gene Gnocchi si deve credere un watusso - ancora gli sta qui. «Uno che usa le caratteristiche fisiche per demonizzare un’altra persona mi fa impazzire - dice Brunetta - E’ l’unica cosa che veramente non sopporto. La satira va bene, ma se diventa razzista è ignobile».


Poichè anche Brunetta dev’essere dotato di una memoria in qualche modo selettiva, immaginiamo che per consolarsi degnamente sia volato tra le braccia di Titti, una che Gene Gnocchi se la sogna. Bella e bionda, con il sorriso di Julia Roberts, gli occhi di Bambi e i tacchi bassi di Carla Bruni. E’ la sua fidanzata da due anni e, tra pochi mesi, se la sposerà a Torcello, o a Ravello, o a Todi. «E’ un pezzo della mia vita - dice - Anzi, è un pezzo importante della mia vita. Di più non dico. Andiamo avanti?».

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