Brucia la Fenice, brucia la politica

29 gennaio 1996 e 8 maggio 1997, le date che hanno sconvolto Venezia
Le lingue di fuoco superavano i cinquanta metri verso il cielo, illuminando tutta la laguna di una luce irreale e apocalittica. La gente per le calli correva e piangeva, avvolta in una nube scura, in un fumo acre. Bruciava la Fenice, simbolo della venezianità, in quella maledetta notte tra il 29 e il 30 gennaio del 1996. La mia terza settimana di direzione de «La Nuova Venezia» e degli altri quotidiani veneti del Gruppo Espresso, «Il Mattino di Padova» e «La Tribuna di Treviso», coniugò l’emozione intima e civile con la sfida giornalistica.


Una grande fotografia sovrastata dal titolo «La Fenice in cenere - Distrutto un simbolo di Venezia », campeggiò sull’edizione straordinaria che mettemmo insierme in poche concitate mezz’ore con l’attuale direttore di questo giornale, Antonello Francica e con tanti cronisti che, mentre raccontavano i fatti, piangevano loro stessi con noi e con i concittadini veneziani.


Quell’incendio, letto oggi dopo la ricostruizione della Fenice «dov’era e com’era», promessa subito dal sindaco Massimo Cacciari, fu come il tragico annuncio di un altro incendio sociale e politico, di cui oggi viviamo gli effetti in tutto il paese. Era passato poco più di un anno dalllo choc del rogo, quando il 9 maggio del 1997 in tutto il mondo dilagarono le immagini scattate dai fotografi della Nuova che immortalavano il campanile di San Marco occupato da un commando di «venetisti».


A protezione del manipolo in Piazza San Marco sostava il «Tanko», cioè il blindato fatto in casa sui resti di un vecchio camion con la canna di una stufa al posto del cannone. I volti rustici dei Serenissimi, come si autoproclama vano, spuntavano asserragliati in cima al campanile più famoso del mondo.


Erano otto, tra padovani e veronesi, che si erano impossessati del simbolo veneziano per dimostrare la loro alterità rispetto all’Unità d’Italia. Fu allora che cominciammo a capire che quei volti sul campanile non erano Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, bensì uno dei primi fragorosi atti di quella rivolta veneto-leghista che nei due lustri successivi ha contribuito significativamente a mutare alle radici la scena politica del Paese, fino all’irrompere del Legaforzismo di governo certificato dalle elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008 e confermato dalle elezioni europeee e amministrative del 2009.


Il popolo delle partite Iva al tempo dei Serenissimi già da anni proclamava «Roma cankera ne ciucia el sangue» schierando i suoi attivisti pseudo-ghandiani distesi dinanzi alle camionette della Guardia di Finanza occhiuta e oppressiva. Ma nonostante i segnali di insofferenza e i proclami secessionisti di Umberto Bossi, il clamoroso successo elettorale della Lega nel 1996 era stato considerato dalle solite èlite con un certo sopracciò, come un voto di protesta in libera uscita che si sarebbe riassorbito prontamente.


Non dureranno e se dureranno pazienza, visto che in fondo sono «una costola della sinistra», proclamò Massimo D’Alema. Un fatale errore di valutazione. Sono 830 mila gli elettori veneti che nell’aprile 2008, dieci anni dopo, salgono sul Carroccio. Vengono da sinistra e da destra, sono artigiani, operai, ex operai, imprenditori. Non funziona più lo schema obsoleto destra-sinistra.


Semmai incede il modulo centro-periferia, grandi città e province, èlite intellettuali e realtà pedemontane, caste percepite contro popolo fatto di carne e sangue. Ciò che dal Tanko di San Marco in poi ha fatto della Lega il terzo partito su base nazionale e, scomparse dopo Tangentopoli le tradizionali formazioni, il simbolo più «antico» ormai presente nelle schede delle elezioni politiche.


Il Carroccio è oggi la forza politica più radicata in un territorio che ha dimenticato le parrocchie, come le cellule di togliattiana memoria. Centoquattro comuni, quattro province e due capoluoghi di provincia solo nel Veneto. Dal Tanko di San Marco, che rivelava un sentimento diffuso di alterità, al Legaforzismo, che non solo conquista le amministrazio ni locali, ma detta la linea al berlusconismo in sede nazionale. Non una secessione balcanica, come qualcuno temeva. Niente di brutale, senza commando e cannoni di latta, senza le doppiette evocate da Bossi, pronte nelle valli del nord.


Solo una secessione strisciante, leggera, ormai di fatto già compiuta. La «golden share» della Lega sul governo nelle elezioni del 7 giugno 2009 divenne una persino più preziosa «platinum share», codificata nell’agenda del Consiglio dei ministri e del Parlamento. Il federalismo, le ronde, la sicurezza, i respingimenti in mare, le gabbie salariali.


Ora rivendica il governatorato del Veneto, al posto del riottoso Giancarlo Galan, e forse persino quello della Lombardia, nonostante la potenza ciellina dell’attuale governatore Roberto Formigoni, magari lasciando Venezia all’iperpresenzialista ministro berlusconiano Renato Brunetta, che sulla futura carica di sindaco lagunare continua a investire tutte le sue energie riformatrici, che si nutrono soprattutto di comunicazione. Tre lustri dopo, mentre la Lega scivola forte verso sud, conquistando posizioni elettorali impensabili persino nell’Emilia rossa, il partito padano del dio Po, delle acque, dei miti celtici è cambiato.


Oggi, al di là delle icone mitiche, dà in qualche modo la vera identità alla destra che governa questo paese, a un Pdl che identità sue non ne ha e non ne sa coltivare. Forse tutto cominciò davvero in quel freddo gennaio del 1996, nel rogo premonitore della Fenice e in quella violazione del campanile che forse sbrigativamente fu catalogata soltanto come una goldoniana opera giocosa.

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