Il patriarca Moraglia: «Leone XIV una guida per la Chiesa universale e per le sfide del futuro»
Per il Patriarca di Venezia, l’elezione di Prevost è il segno di una chiesa unita: «Il suo pontificato in continuità con Bergoglio, ma non sarà una fotocopia»

Un nome che denota «personalità». E che, come fu per l’ultimo pontefice a chiamarsi Leone ben 123 anni fa, porta ancora una volta con sé la necessità di elaborazione di un pensiero sulla rivoluzione globale in atto: quella dell’intelligenza artificiale.
Così, se nel 1891 l’enciclica Rerum Novarum fronteggiò il cambiamento epocale prodotto dalla rivoluzione industriale, ora Leone XIV dovrà farsi interprete di un mondo che corre. Come? La risposta, secondo il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia, affonda nelle radici, sia familiari che teologiche, del cardinale Robert Francis Prevost.
Patriarca, ha mai incontrato il nuovo pontefice?
«Sì, ci siamo incontrati quando era prefetto del dicastero dei vescovi. Ho avuto modo di incontrarlo su questioni riguardanti il ministero episcopale. E mi ha colpito una cosa. Ha lasciato parlare tutti, anche i suoi collaboratori che l’hanno preceduto, poi ha ascoltato quello che io avevo da dire. E poi lui è intervenuto con estrema puntualità».
Cosa l’ha colpita?
«La sua capacità di avere una storia che l’ha portato a conoscere ambienti, culture e situazioni molto differenti fra di loro. È un uomo che nasce in America, appartiene a una famiglia religiosa, quella agostiniana, che non l’ha portato solo nel suolo americano. È certamente un cardinale americano, ma sui generis.
Figlio di immigrati, radici europee, poi un lungo ministero come missionario in uno dei paesi più difficili dell’America Latina, il Perù, dove convergono tante emergenze di quel continente.
Lì c’è una forte fede mariana. Nella benedizione alla loggia mi ha colpito che abbia proposto la preghiera del bambino, di chi ha perso contatto con la chiesa e magari entrando in un santuario dice un Ave Maria, in cui si rifugiano anche gli anziani magari non più in grado di dire preghiere complesse. Significativo anche il suo collegamento della comunione a Gesù: se lo riduciamo a un leader, a un superuomo, cadiamo già nell’ateismo».
La velocità con cui il Conclave è arrivato alla fumata bianca è un segnale di unità della Chiesa?
«Il Conclave è sì un fatto umano ma di persone che si affidano al Signore. Quando di fronte al Giudizio Universale della Cappella Sistina un uomo va a indicare chi gli sembra adatto a guidare la Chiesa, qui esce fuori la natura di una congregazione non solo umana. Certo, ci sono candidature che forse sono enfatizzate dai media. Comunque c’era di sicuro l’idea di dare un messaggio di unità. Mi attendevo un Conclave breve, come del resto è stato negli ultimi 60-70 anni. Poi mi ha colpito una cosa...»
Cioè?
«Prevost, seppur in ascesa, non era dato tra i più gettonati dalla stampa perché americano. Ecco, questa è un’occasione per dire che la chiesa cattolica è universale ma secondo una realtà differente dalla geopolitica di Limes o di altre riviste specializzate. Esce fuori dagli schemi. Nel ’78 quando fu eletto Wojtyla, molti dicevano che non l’avrebbero mai fatto un papa del patto di Varsavia, di un paese sotto il socialismo reale. E invece uscì lui. Prevost non può essere catalogato come americano legato ad uno schieramento politico».
Proprio di recente, lo stesso Prevost aveva duramente criticato l’amministrazione Trump sulle politiche migratorie.
«Non si possono chiudere le porte a prescindere. Questo dimostra che la chiesa è cattolica e non è una visione politica delle situazioni mondiali. Certamente qualcuno avrebbe potuto ritenere disdicevole un papa proveniente da un paese estremamente potente che grazie a questa nomina avrebbe potuto avere un ulteriore capacità di dominio sul mondo. Non è così. Il papa non è né tedesco, né argentino né polacco: è un vescovo che se è fedele al suo mandato è grato alle sue radici ma sa andare oltre le appartenenze politiche».
Il primo discorso dalla loggia e l’omelia che indirizzo danno al pontificato di Leone XVI?
«Penso che sarà un pontificato che prende il testimone del precedente, come dimostra l’accento sulla parola pace pronunciata da Francesco a Pasqua. Ma non sarà una fotocopia del pontificato di Bergoglio».
Che significato attribuisce alla scelta del nome, Leone XIV?
«È un nome impegnativo, che denota personalità, non pesca in pontificati recenti. Ci riporta indietro di 123 anni. Credo però che il richiamo più che a Leone XIII sia a Leone Magno. Prevost è un agostiniano, nutrito di pensiero medievale perché Agostino, genio dell’umanità, ha segnato il periodo più difficile di un cambiamento d’epoca.
Leone Magno fu impegnato su due fronti: l’impegnativo rapporto con il potere politico che all’epoca si chiamava invasione dei barbari e Attila; e preparazione del concilio di Calcedonia sulla dottrina cristologica. Credo che la complessità di questo nome richiami questo suo tessuto storico e sprituale. Al tempo stesso è un richiamo a Leone XIII, papa di transizione.
Un pontificato in cui si esprimevano i frutti della rivoluzione industriale. Una rivoluzione che cambia la vita delle persone, dalla civiltà agricola si passa a quella industriale. La questione operaia. Mi viene da fare questo confronto: rivoluzione industriale a fine ’800 con Leone XIII e la grande rivoluzione che ora abbiamo davanti che è l’intelligenza artificiale.
Come c’è stata la Rerum Novarum per la questione operaia, ora dovrà essere elaborato un pensiero che non teme l’intelligenza artificiale, che l’accoglie, la sviluppa e metta in guardia contro i pericoli nei confronti della fede e dell’umano, che rischia di essere in mano a pochi centri capaci di esprimere un potenziale di informazioni che sottomettono l’umanità senza che questa se ne accorga».
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