Chiara, 28 anni, da Gorizia al bunker in Israele: «Vivo sotto i missili, con il cuore in gola»

La testimonianza da Haifa della giovane ricercatrice: “Qui non vale il pensiero che non possa succedere a te. Dormire è impossibile, ogni rumore sembra un’esplosione”

Emmanuel Cuccu
Chiara Conti, goriziana, 28 anni ad Haifa
Chiara Conti, goriziana, 28 anni ad Haifa

C’è anche una goriziana in Israele in queste ore sotto la pioggia di missili iraniani. È Chiara Conti, classe 1996, che ha scelto Haifa per il suo dottorato in Microbiologia marina e adesso vive in condizioni di estremo pericolo, confinata tra il suo appartamento e il bunker dell’edificio.

«Per un europeo, che i racconti di guerra li ha letti sui libri o li ha sentiti magari nei racconti dei nonni, vivere in un contesto simile è quasi surreale. Ma l’incredulità dura poco e vieni subito catapultato nella realtà al suono di sirene e di esplosioni. Chi sceglie di vivere anche per un periodo in Medio Oriente, considerata la storia difficile che l’ha caratterizzato, mette in conto (o dovrebbe mettere in conto) situazioni del genere. Non vale il motto Il motto “non succederà proprio a me” non vale. Non qui».

La notte si riesce a dormire?
«Inizi ad associare rumori forti, ma innocui, alle esplosioni: il rombo di una moto, quindi, ti sembra una sirena. Ultimamente poi ci sono stati diversi attacchi proprio di notte. Quindi no, dormire è davvero difficile».
Quando suonano le sirene, dove vai esattamente?
«Nell’edificio in cui abito ora, al piano inferiore c’è un bunker. Quindi appena riceviamo la notifica sul cellulare (30 minuti prima) oppure al suono della sirena (1 minuto prima) ci precipitiamo giù per le scale per chiuderci nel bunker. Se sei per strada, allora devi fermare la macchina e distenderti sulla pancia, coprendoti la testa con le mani».
Cosa ci si porta con sé quando si scappa dopo aver sentito una sirena?
«In queste situazioni consigliano di avere sempre pronto uno zaino con articoli essenziali e di emergenza, comprese torce, powerbank e simili. Ma non è lo zaino che ci portiamo dietro ogni volta nel bunker».
Com’è la vita in città? I negozi sono aperti o c’è il deserto per strada?
«Solo i lavoratori del settore sanitario e d’emergenza e i commessi dei supermercati hanno il permesso di continuare con le loro attività. Le scuole per ora sono chiuse. L’Università è chiusa: per andarci bisogna fare richiesta di un permesso speciale in caso di necessità. Ma in qualche modo la vita continua: c’è anche chi fa sport, addirittura surf in mare».
Gli ospedali sono attrezzati?
«Sì, direi che gli ospedali sono preparati a questo tipo di situazioni. Persino alcuni ragazzi chiamati in riserva militare possono essere coinvolti nella sanità. Tra i giovani riservisti tanti organizzano la logistica proprio negli ospedali, regolano gli afflussi di donatori di sangue, fanno i tecnici, i paramedici, gli infermieri, i soccorritori. Si sentono moltissime ambulanze in giro, soprattutto dopo impatti ed intercettazioni».
Quando hai avuto più paura? C’è stato un momento in cui hai pensato di non farcela?
«Sabato notte. Dalla finestra ho visto questi missili arrivare sopra Haifa: il rumore è stato assordante, come se fossimo vicinissimi ad un aereo che vola. I bambini piangevano, le mamme li stringevano al petto, cercando di tappare loro le orecchie e di cullarli. Credo di non aver mai visto occhi di madre così preoccupati, dal vivo. E credo di non aver mai sentito il mio cuore battere così forte, veramente in gola. È questo l’istinto primordiale di sopravvivenza. E poi è arrivata la notte successiva».
Cos’è successo domenica?
«Un missile ha colpito la centrale elettrica nelle periferie di Haifa, un incendio è partito, il cielo si è infiammato di arancione. Una scena impressionante».

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