“Con i miei occhi”, l’orizzonte della Santa Sede alla Biennale
Il carcere femminile della Giudecca diventa padiglione e attende il Papa. Poesie, ritratti, una luce nel buio e “Father”, l’installazione di Cattelan

Con gli occhi, ma anche con le parole, le mani, i piedi giganteschi di Maurizio Cattelan (“Father”) sporchi di fatica, che coprono la facciata esterna della cappella, perché in fondo sono le estremità del corpo a portare il peso della vita.
Il carcere femminile della Giudecca è stato scelto dal Vaticano come Padiglione per la Biennale Arte (inaugurazione il 20, visita di Papa Francesco il 28) grazie alle opere di nove artisti che – così come dovranno fare i visitatori, a gruppi di 25 per volta, solo su prenotazione – hanno superato i cancelli, passato il metal detector, depositato il cellulare e gli effetti personali e finalmente guardato negli occhi le ottanta detenute il cui mondo si ferma alle sbarre delle finestre.
La prima opera della mostra “Con i miei occhi”, curata da Bruno Racine e Chiara Parisi, è il confronto fragoroso tra chi è libero come l’aria e chi di aria ne ha un paio di ore al giorno: due mondi che la Santa Sede ha voluto avvicinare non per assolvere, ma per comprendere, ciascuno con il proprio sguardo, ammesso per la prima volta a un luogo in cui l’attesa è condizione permanente.
Sono le detenute, in divisa bianca e nera, a guidare il pubblico tra i corridoi e il giardino nei quali i passi sono sempre dolenti, ma non in questi giorni di palingenesi del luogo e dell’anima. Brilla nel cortile silenzioso il neon “Siamo con voi nella notte” di Claire Fontaine. «È per il buio di quando i nostri mostri vengono a trovarci» dice Marcela. Fluttua dal soffitto della cappella lo spartito della “Sinfonia das Cores” della brasiliana Sonia Gomes, l’unica artista presente che si commuove: «È uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Solo così l’arte ha un senso».
La gioia, come la bellezza, è effimera, ma anche consolatoria, perché dietro i ritratti delle detenute di quando erano bambine realizzati da Claie Tabouret insieme al rimpianto delle vite perdute c’è un alito di speranza, se i mostri non torneranno più a far visita. Con la parole, le detenute hanno fatto poesie che poi Simone Fattal ha inciso su placche di lava smaltata.
«Ora che il tempo non esiste più, ora che sono libera da tutte le definizioni, ora che non c’è passato, ne presente né futuro» scrive Giulia. «Anche la nostra ombra ci lascia soli» recita un altro testo «qui se stai per annegare ti mettono un mano sulla spalla per farti affogare prima» .
Ed è l’unica finestra del carcere senza sbarre, affacciata sul giardino, a dare il senso di questa alterità, che gli artisti come Corita Kent (religiosa statunitense scomparsa nel 2018) e la danzatrice Bintou Dembélé ricompongono rispettivamente nelle opere installate nella caffetteria e nella coreografia che ha coinvolto le detenute. Per quattordici minuti le detenute sono anche protagoniste del cortometraggio in bianco e nero del regista Marco Perego e dell’attrice Zoe Saldana, che diventa una di loro fino al giorno in cui per lei la pena finisce.
Uscita dal carcere si siede in una panchina della Giudecca a rivedere in tramonto. In mano, il sacchettino con una ciocca, regalo della compagna di cella. È l’amicizia che esce dalle mura; con i miei occhi e i tuoi capelli.
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