Tra vita e morte, la storia di Claudia: sopravvissuta a due trapianti di cuore
Sopravvive a due trapianti di cuore e un’amputazione: la storia di Claudia Mariani, esempio di forza e coraggio, curata all’Ospedale di Padova

Claudia sorride alla vita, quasi canzonandola sebbene questa l’abbia presa a schiaffi con violenza e maligna determinazione. Dopo che questo l’ha sbattuta a terra una prima volta, aspettando che si riprendesse giusto un po’ per farle un nuovo e ancor più vile sgambetto, Claudia si è salvata facendo il dito medio. Letteralmente.
Oltre la malattia, la vita
E oggi, Claudia Mariani, racconta la sua storia per abbracciare chi ha creduto nella sua voglia di vivere combattendo per lei quando era ostaggio di un sonno che voleva diventare eterno, senza accorgersi di essere maestra – di sfortuna e di coraggio – lei che in un anno ha avuto bisogno di due trapianti di cuore e che è stata a poco meno di un passo dalla morte. I suoi pensieri più profondi e intimi li ha scritti in una lettera, lasciata in ospedale prima di essere dimessa.
«Al Gallucci ho avuto una possibilità che so che non avrei avuto altrove» racconta con voce cristallina «lungo i corridoi ho incontrato persone come me, che altrove erano considerate magari troppo vecchie o troppo malandate per avere una possibilità, ma che qui hanno trovato medici che hanno creduto nella loro voglia di vivere. Credo che in altri luoghi, altre persone non si spendano in questo modo per i pazienti».
La storia
Claudia Mariani quest’anno compie 38 anni: sul suo futuro fin da piccola pendeva una cardiopatia congenita che, complice il Covid, a gennaio dello scorso anno ha presentato il conto. Improvvisamente. Avevamo raccontato di come l’infermiera di un grande ospedale milanese avesse scelto Padova, moderna Pollicina in viaggio sulle tracce della storia scritta sui trapianti di cuore dall’Azienda Ospedale Università.
L’avevamo lasciata piena di entusiasmo per il suo ritorno alla vita malgrado quel problema post intervento, un caso di rigetto piuttosto raro che pure sembrava gestibile con i farmaci e carica di ammirazione per i medici – in particolare il dottor Giuseppe Toscano, Nicola Pradegan e Florinda Rosaria Mastro dell’equipe del professor Gino Gerosa – che si erano fatti carico della sua battaglia, trasformandola nella loro guerra. E che si sono schierati al suo fianco anche quando questa si è fatta crociata.
«Avevo da poco ripreso a lavorare, questa volta in ufficio, quando una mattina di metà gennaio mi risveglio stesa in bagno con un bernoccolo sulla fronte» racconta «ero svenuta. Ho capito subito che le cose si mettevano male e che dovevo tornare a Padova. In seguito mi hanno detto che avevo sviluppato una forma di rigetto talmente rara e aggressiva che quando mi hanno espiantato il cuore sembrava un trapianto vecchio di trent’anni, non di pochi mesi».
Il cuore cede
Nemmeno il tempo di arrivare a Padova che il cuore di Claudia cede: «Dovevo firmare i documenti per essere sottoposta a un nuovo trapianto ma le mie condizioni erano già così gravi che ero sempre sostanzialmente sedata o in ecmo».
Eppure c’era ancora margine perché le cose peggiorassero: «In quei giorni sono andata in arresto cardiaco quattro volte» racconta «l’ultima, i medici hanno detto che mi sono saltati letteralmente addosso per riportarmi indietro. A quel punto temevano che avessi riportato danni cerebrali e hanno convocato i miei genitori per chiedergli cosa dovevano fare con me, sapendo che dopo un quarto arresto cardiaco non ci sarebbe stato ulteriore margine di sopravvivenza. Gli hanno detto chiaramente che non dovevano farsi illusioni».
La decisione è di svegliare Claudia e vedere come va: «Ricordo che ero intubata e che non potevo parlare quando mia sorella – sempre al mio fianco con mamma è papà – ha fatto per toccarmi una gamba ed è stata redarguita seccamente da un’infermiera con un “non si tocca”. A quel punto so solo che ho reagito alzando il dito medio». Un segnale inequivocabile: Claudia c’era ancora e non intendeva arretrare. «Mi hanno chiesto se volessi essere rianimata ancora in caso di nuovo arresto. E ho risposto: sì!».
La battaglia continua
Da quel momento c’è giusto il tempo di dare l’ok al trapianto: viene diramata un’emergenza nazionale e l’8 febbraio Claudia torna in sala per un secondo intervento: «So benissimo che la possibilità di un secondo trapianto non è automatica, che darmi un’altra chance in quelle condizioni non è stato facile, ma i miei medici ci hanno creduto anche quando era finita, sono stati loro ad andare a bussare alle porte per dire che volevo essere rianimata, che volevo vivere».
Alle 11 del mattino Claudia entra in lista: quella stessa sera viene valutato un cuore che si è reso disponibile. E di nuovo si aprono le porte della sala operatoria: il trapianto va bene, ma si presentano altre difficoltà. Lo apprenderà solo al suo risveglio, il 27 febbraio: «Mi sembrava impossibile che fosse passato tutto quel tempo» prosegue «mi hanno detto che c’erano state delle complicazioni per cui le arterie si erano ostruite e avevano dovuto amputarmi una gamba». Eppure, ancora una volta, Claudia non molla.
«Probabilmente ho reagito bene perché ero strafatta a causa dei farmaci, vedevo cose strane» scherza oggi «il povero Pradegan mi ha detto che non ci aveva dormito la notte perché non sapeva come darmi la notizia e io l’ho costretto pure a ripeterla due volte perché non avevo capito cosa fosse successo. In realtà il mio timore più grande era sempre stato quello di finire in dialisi» prosegue «mi ricordo che dicevo: “Prade”, sappi che se avrò bisogno anche di un trapianto di rene vengo a prendermi direttamente il tuo».
Salva grazie ai donatori
Nella voce di Claudia non c’è traccia i recriminazione, il registro che ha scelto è quello della leggerezza indossata per vestire una corazza d’acciaio splendente: «È questione di rispetto, lo devo alle persone che hanno lottato per me quando non avevo voce» spiega, quasi fosse scontato «ai miei medici, a partire da Toscano che mi ha operato con una spalla bloccata, alle infermiere che ho visto piangere quando temevano che non ce l’avrei fatta. E al mio donatore».
Claudia sostiene di sapere chi è: «In quei giorni c’è stato un grosso incidente sul lavoro al sud e si è fatto un gran parlare della donazione che ne era seguita, ne avevano parlato anche in chiesa. Con mia mamma abbiamo fatto due conti e tutto combaciava» rivela «tuttavia il fatto di conoscere il viso di chi mi ha permesso di vivere non cambia molto, se non che ho un volto a cui riferirmi quando gli rivolgo il mio pensiero».
Dopo 40 giorni a letto immobile – «faticavo anche a tenere il telefono in mano» –, Claudia comincia a fare i conti con il suo nuovo corpo: «Ho iniziato a rafforzarmi e a fare riabilitazione» prosegue «mi sono rimessa in piedi, ho imparato a gestirmi stando su una gamba aiutandomi con il girello. Poi mi sono comprata una carrozzina ultraleggera fluo con cui alla fine sfrecciavo per il corridoio dell’ospedale».
Senza mai perdere il sorriso
Ma con l’energia torna l’impazienza: ancora una volta Claudia sente il l’urgenza di tornare alla vita. «Il Gallucci è stato la mia casa, ma le finestre sono satinate e io volevo tornare a guardare fuori».
Ai primi di maggio le dimissioni, una decina di giorni fa il primo controllo: «Ora devo fare pratica con la protesi» conclude «dopo il primo trapianto mi erano tornati dei forti tremori per cui ogni volta che dovevo schiacciare la frizione temevo che avrei finito per tamponare qualcuno, così avevo ordinato una macchina con il cambio automatico. Non ho ancora avuto modo di ritirarla. Ma visto che mi hanno tagliato la gamba sinistra prima o poi dovrei riuscire a tornare a guidare».
C’è chi dice che non è finita fino a quando non è finita. E chi osa sfidare anche quell’ultimo limite. Senza nemmeno perdere il sorriso.
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