Antonio Bisaglia, il mistero doroteo lungo quarant’anni

Il 24 giugno 1984 la morte improvvisa del leader Dc veneto in un incidente in barca nel golfo Ligure. Un potente della Prima Repubblica, fu ministro e vicesegretario della Balena Bianca

Francesco Jori
Antonio Bisaglia, rodigino, fu dirigente della Dc negli anni ’70 e ’80
Antonio Bisaglia, rodigino, fu dirigente della Dc negli anni ’70 e ’80

Domenica 24 giugno 1984, quarant’anni fa. Nel primo pomeriggio, Antonio Bisaglia, 55 anni, tra i principali leader della Democrazia Cristiana, muore annegato nelle acque del golfo Ligure, all’altezza di Portofino, cadendo in mare dal panfilo “Rosalù”: un 22 metri su cui si trova assieme alla moglie Romilde Bollati di Saint Pierre, sposata un anno prima.

Francesco Cossiga, all’epoca ministro degli Interni, arriva sul posto e fa trasportare la salma a Roma, su un aereo militare.

Classe 1929, nato a Rovigo in una famiglia di modeste condizioni, Bisaglia si iscrive giovanissimo alla Dc, nel 1945, aderendo alla corrente di Iniziativa Democratica che fa capo al vicentino Mariano Rumor, e che dal 1959 si costituirà come gruppo doroteo, a seguito della rottura con la componente di Amintore Fanfani.

Segretario provinciale del partito a Rovigo nel 1960, tre anni dopo viene eletto alla Camera, dove rimarrà fino al 1979, per poi passare al Senato, diventando capogruppo; ricoprirà anche gli incarichi di ministro alle Partecipazioni Statali e all’Agricoltura. Nel 1972, assieme a Ciriaco De Mita, è vice segretario del partito retto da Arnaldo Forlani. Nel 1975, in seguito a una frattura nel gruppone doroteo, scalza Rumor dall’egemonia sulla Dc veneta.

***

Il suo modo di essere, l’aveva inquadrato con poche ma eloquenti parole lui stesso, in un libro-intervista con Giampaolo Pansa: “Io sono un moderato”. Uno stile di vita che aveva motivato la sua adesione, all’interno della Democrazia Cristiana, alla corrente dei dorotei, perché “rappresentano un momento stabilizzante e una politica di maggiore equilibrio, di moderazione”.

Antonio Bisaglia si è mantenuto fedele a questa linea nell’intero lungo quanto intenso percorso politico, che pur rifuggendo i primi piani l’aveva portato a riscuotere una specifica attenzione anche fuori d’Italia: già dieci anni prima della sua choccante scomparsa, l’autorevole rivista “Time” l’aveva indicato come uno dei quattro italiani del futuro. Non ha fatto a tempo a diventarlo, ma ha lasciato un segno profondo nel suo Paese e nella sua regione.

A ripercorrerne oggi il denso cammino politico, emergono alcuni sostanziali elementi di modernità.

Cominciando dal suo stesso partito, di cui coglie la crisi con largo anticipo, fin dalla clamorosa sconfitta nel referendum sul divorzio del 1974: è lui a leggere dietro al dato elettorale l’incrinamento del ruolo della Dc in una società in fase di traumatica trasformazione; è lui a sottolineare che alla tutela dei valori espressi dal mondo cattolico occorreva unire la capacità laica di difendere gli interessi dei ceti medi, divenuti maggioranza sociale.

Ed è ancora lui a cogliere anni dopo i segnali di involuzione del Partito Socialista, avvertendo che nel lungo periodo l’Italia non poteva essere condannata in eterno alla “conventio ad excludendum” nei confronti del Partito Comunista, anche se non lo riteneva ancora pronto al governo.

La sua figura spicca ancor più in relazione a un Veneto dove la Dc di cui è il “dominus” assoluto comincia a veder erosa la sua pluridecennale leadership: se fino al termine degli anni Settanta il partito in regione mantiene saldamente la maggioranza assoluta, alle politiche del 1983 conosce un tracollo di ben sette punti percentuali, in un voto che vede l’esordio a sorpresa di una minuscola forza popolare, la Liga Veneta, e che fa sprofondare la sua Dc dal primo al quarto posto nella graduatoria dei voti regionali. Non è un caso, avverte Bisaglia, che aveva colto precisi segnali già un anno prima: in un’intervista del 1982 a Ilvo Diamanti, aveva denunciato i vincoli romani, lanciando in alternativa l’idea di una Dc veneta federata e autonoma, sul modello della Csu bavarese nei confronti della Cdu tedesca. “Ma a Roma non ce lo lasceranno mai fare”, aveva aggiunto con piena lucidità.

A lui comunque lo stesso Diamanti assegna l’invenzione della figura dell’”imprenditore politico”, che tutela gli interessi della sua area di appartenenza nei confronti dello Stato; ma rifiutando la deteriore logica del “prima i veneti”, per sottolineare invece la necessità di costruire alleanze con altri soggetti e territori.

Per la sua terra aveva proposto un modello basato su scelte discusse e discutibili ma di indubbio respiro, nessuna delle quali peraltro andata in porto: dall’autostrada Valdastico (tuttora incompiuta), alla Venezia-Monaco (ferma inesorabilmente a Belluno), all’operazione Porto Levante (mai decollata).

La Dc regionale si è comunque identificata totalmente in lui: la sua improvvisa scomparsa non ha lasciato eredi, e il gruppone doroteo si è affidato alla gestione di un Carlo Bernini (reclutato oltretutto da un altro gruppo, la corrente di Base) rimasto “primus inter pares”; per poi consegnarsi malinconicamente all’egemonia della cosiddetta “corrente del Golfo” guidata dal napoletano Antonio Gava.

Leader incontrastato per qualità e intuizioni, è stato anche uomo di potere, spietatamente quando occorreva. E ha attraversato vicende turbolente ed oscure in cui è stato chiamato in causa, dall’evasione fiscale di alcuni petrolieri al finanziamento di un’agenzia giornalistica di dubbia fama. Si è visto contestare pesantemente più dentro il suo stesso partito che fuori; sorte comunque toccata ad altri autorevoli suoi predecessori, Alcide De Gasperi in testa.

Qualcuno ha scritto che è stato un singolare mix di dolcezza clericale e ferreo realismo. Immagine indubbiamente efficace, anche se ne è sbiadito il ricordo nel suo stesso Veneto, a cominciare da troppi suoi ex; e ancor più a Rovigo, dove è sepolto nell’anonimato del cimitero, senza un fiore sulla tomba, senza che la sua città abbia ritenuto di dedicargli neppure una modesta strada di periferia.

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia