«Recupero crediti fino a Modena armati agli incontri di Donadio»

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I recupero crediti di Donadio si spingevano fino a Modena, ben oltre il raggio di Eraclea e addirittura più in là dei confini veneti. E non si trattava certo di missioni di pace. Lui e il suo “gruppo d’azione” - una o due macchine a seconda delle circostanze più o meno rischiose, con lo zio Luciano e i suoi guardiaspalla - si presentavano “accavallati”. Armati, cioè. E pronti a rispondere se le cose si fossero messe male. La seconda puntata dell’esame di Gilberto Arena scava ancora più a fondo nelle vicende criminali al centro del maxi processo contro i “casalesi di Eraclea”. Titolo del quale, come ha ripetuto più volte ieri, «Donadio e noi tutti facevamo un vanto». E dal suo sito protetto, dal quale ieri si è collegato e nel quale è agli arresti domiciliari, il collaboratore di giustizia continua a vuotare il sacco. E lo fa, dice, perché dopo anni di “strada” ha ormai deciso di cambiare vita, e di «tagliare il cordone ombelicale» che lo legava allo stesso Donadio.
E dello “zio Luciano”, Arena era un uomo fidato. Fidatissimo. C’era anche lui, come il teste ha raccontato in udienza, durante la spedizione a Modena. «Un conoscente di Donadio», il suo racconto davanti al tribunale, «avanzava dei soldi da un allevatore di Corleone, circa 20-25 mila euro. Si rivolse a noi. Andai anch’io perché disse che parlavamo la stessa lingua. C’eravamo io, Antonio Puoti e Donadio. Ci incontrammo con l’allevatore, e Donadio gli disse: ti conviene pagare. Sulle prime, all’imprenditore non fregava nulla. Ma poi si è fatto convincere». Con le maniere cattive. Tornati a Eraclea, l’indirizzo dell’allevatore viene dato a un altro componente del gruppo d’azione del clan: «Donadio gli disse di andare ad ammazzargli le bestie. E infatti, dopo 3 giorni il messaggio era arrivato e i soldi furono restituiti. Donadio gli disse: “Se tu avessi capito prima non saremmo arrivati a questo punto”».
Un episodio oltreconfine, che dà la misura del raggio d’azione del clan. E del peso del nome Donadio. Il quale si circondava di guardiaspalla. E senza nascondersi, anzi. Addirittura, Arena ricostruisce come agli «incontri più impegnativi» Donadio arrivasse con due macchine. Il motivo? «Perché se si alzavano i toni, non dovevamo farci trovare impreparati. Per questo giravamo accavallati, armati». E a procurare le armi era lo stesso Arena, tramite contatti in Francia e grazie al ruolo giocato dal cugino. Pistole, fucili, mitragliatori, lupare: ce n’era di ogni tipo. Dislocate nelle proprietà di Donadio, nel suo capannone, ma anche nelle abitazioni del suo gruppo d’azione. «Ma non si muoveva nulla senza che decidesse Luciano». Ancora una volta, tutti a totale disposizione.
Sul fronte della legge, poi, le spalle erano coperte. «C’era chi ci avvisava di far sparire armi e documenti», la risposta di Arena alle domande del pm Terzo, «a Donadio arrivava una telefonata, poi ci diceva di fare pulizia. Chi era a telefonare? Un poliziotto di Jesolo, Moreno Pasqual. Capitò che ci dicesse anche di una retata antidroga, e Luciano avvisò gli albanesi». Lo stesso Pasqual, poliziotto «amico» del boss secondo la Procura, a cui Arena rifece l’impianto elettrico e l’antifurto. Lavoretti casalinghi da 3-4 mila euro. E a pagare era sempre lui, lo “zio Luciano”.
Nelle scatole cinesi delle società legate alla galassia Donadio, centrale era il rapporto con le banche: per ottenere prestiti, ma anche «vantaggi». È la parola che usa Arena nel descrivere il suo rapporto con il direttore della Mps di Musile, Denis Poles.«Da quando diventai un uomo di Donadio», le parole di Arena, «il mio rapporto in banca è cambiato. Una volta chiesi un mutuo, il direttore fece un controllo, disse che c’era una segnalazione. Aggirò l’ostacolo intestandolo a mia moglie, Donadio preparò i documenti e Poles sapeva che era tutto falso». Era un suo uomo, del resto. Un’appartenza ai casalesi («lo sapevano tutti»), però, contestata dall’avvocato Fragasso. C’era stato un giuramento, o un atto formale prima di associarsi alla famiglia Donadio? «No, nessuna formalità: non serviva», la risposta.
Scontro in aula sull’accoglimento (il tribunale si è riservato) delle lettere tra la moglie di Arena, Michela Basso (coimputata) e l’ex marito. Punto, questo, su cui le difese si sono battute per valutare la credibilità del teste che avrebbe cambiato versione dei fatti nei confronti dell’ex moglie in due occasioni diverse. —
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