Nel mondo degli Hobbit spunta Tauriel l’elfo femmina

Secondo episodio della seconda trilogia di Peter Jackson, “La desolazione di Smaug” costituisce un altro capitolo della personale rilettura che il regista neozelandese ha operato dai lavori di J.R.R. Tolkien. Ma mentre nel caso de “Il signore degli anelli” la mole del romanzo originario imponeva tagli sostanziali a un’opera mastodontica, nel caso dello “Hobbit” si assiste a una dilatazione del racconto cinematografico che prevede anche la nascita di nuovi personaggi, come Tauriel, avvenente elfo (elfa? Esiste il femminile di elfo? mah…) che segna l’ingresso di una protagonista femminile in un’opera totalmente “monogender”. Ne deriva tuttavia che il ricorso alle sequenze spettacolari, effetti speciali e animazioni della Weta incluse, prendono il sopravvento sulle fascinazioni narrative ed estetiche della prima trilogia. La compagnia dei tredici nani, guidati da Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), dal mago Gandolf (Ian McKellen) e da Bilbo Baggins (Martin Freeman), scampata una prima volta all’attacco degli orchi, riprende il suo viaggio verso la Montagna Solitaria, un tempo capitale del regno di Erebor ora dominio incontrastato del drago Smaug. Il percorso attraverso Terre di mezzo e laghi solitari continua scansando l’inseguimento degli orchi, ma anche degli Elfi, che dapprima li imprigionano e poi ne condividono l’avventura verso la Montagna del drago. È qui che il film raggiunge il momento più alto dal punto di vista visionario e spettacolare: l'avventura dei nani per cercare la pietra incantata e sfuggire al drago si trasforma in una lotta impari, che i nani rovesciano a loro favore grazie a una serie di stratagemmi e di tranelli, obbligando il drago a fuggire verso il mondo sottostante. La sua ultima frase - “io sono fuoco” – non lascia presagire nulla di nuovo per il terzo e ultimo episodio – già girato e previsto in distribuzione il prossimo 14 dicembre 2014 – che costituirà il saldo con “Il signore degli anelli”, di cui lo “Hobbit” costituisce un prequel anche cronologico, di circa 60 anni. Tra i tanti paradigmi dei comportamenti umani – diffidenza, violenza, ansia di potere, tradimenti, coraggio e sentimento – che le creature magiche di Tolkien incarnano, Smaug costituisce la sintesi di una molteplicità di atteggiamenti che lo rendono affascinante (anche per la voce profonda, che nell’originario appartiene a Benedict Cumberbatch e in italiano a Luca Ward), ma anche estremamente vulnerabile perché soggetto alla vanità. Non molto, in effetti, per oltre due ore e mezza di immagini.
Durata: 160’ – Voto: ***
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia