Dentro la Rianimazione dell’ospedale di Mestre. "Noi, pronti al peggio. Aiutateci a farlo capire"

l’intervista
La terapia intensiva di una Rianimazione è il cuore di un ospedale, il punto dove più sottile è il confine tra la vita e la morte, dove l’attimo può essere decisivo, in un senso o nell’altro.
Cinquanta medici rianimatori ed altrettanti infermieri lavorano notte e giorno - in tre turni - per gestire pazienti trapiantati, malati oncologici, politraumatizzati, post cardiologici in condizioni di estrema gravità. I posti letto da 54 sono diventati 61 e presto diventeranno settanta. L’occupazione di questi posti letto è naturalmente altissima, per i costi e l’intensità delle cure erogate. L’hub di Mestre assicura un’area intensiva che copre da Portogruaro a Chioggia tutta la provincia di Venezia sottolinea il direttore generale Giuseppe Dal Ben, costantemente aggiornato. Da almeno venti giorni questo reparto, al primo piano sotterraneo dell’Angelo, è blindato per le ragioni che sappiamo. Si teme l’onda, che metterebbe a dura prova il sistema ospedaliero.
Il primario Francesco Lazzari, veneziano del Lido, ha sessant’anni, è medico da più di trenta: «Non avevo mai visto in vita mia un numero di pazienti così alto in così poco tempo - spiega in un raro momento di pausa - . Ma governo, Regione e Azienda sanitaria stanno facendo tutto ciò che è utile per affrontare il problema e assicurare a tutti le medesime cure. In questo momento abbiamo dieci casi Covid 19 impegnativi, che richiedono un apparato di cure intensive. Temiamo l’esondazione. Come definerei la situazione generale? Preoccupante ma superabile».
Il medico guarda l’orologio, deve tornare ai pazienti: «Sono un primario operaio, partecipo attivamente alla gestione dei pazienti. Noi medici, ma anche tutto il personale paramedico, conduciamo una vita parallela: io entro qua alle sette e mezzo del mattino e raramente esco prima delle 22,30 soprattutto in questo periodo». Uno stress esteso a tutti. Solo per la vestizione, il personale medico e paramedico impiega tre quarti d’ora per bardarsi in modo da evitare contagi, misure indispensabili.
«Questo virus è particolarmente insidioso e subdolo - aggiunge il primario - la sua evoluzione può essere molto rapida e il paziente può richiedere nel breve volgere di poche ore una terapia intensiva. Lo stress a cui siamo tutti sottoposti - medici, infermieri, personale ausiliario - è straordinario: ma in questi giorni ho visto una grandissima coesione e solidarietà da parte di tutti, nessuno si è tirato indietro di fronte a una doppia guardia. Pensate cosa vuol dire pronare dieci pazienti ogni sei/otto ore per aiutare la respirazione».
Per questo ignorare le indicazioni delle autorità è da incoscienti: una eventuale massa di contagiati che richiedano cure intensive potrebbe costringere davvero alla scelta che nessuno, in cuor proprio, vorrebbe fare: scegliere chi salvare. Sembriamo tutti seduti su un aereo con i motori in fiamme a lamentarci dello snack. «Purtroppo fuori c’è, a mio parere, una negazione del problema – aggiunge Lazzari – le persone non si rendono conto della situazione. Pensano che non debba mai toccare a loro, che nessuno avrà bisogno di una terapia intensiva e invece purtroppo non possiamo permetterci uno stress di questi reparti in questo momento... Noi abbiamo una sanità eccellente, ma l’esempio che arriva da Milano, appena 250 chilometri da qui, è allarmante. Non mi aspetto l’ondata, ma dobbiamo essere pronti».
«Non è per noi che dobbiamo lavarci le mani - spiega – ma per le persone già malate, per le quali la diffusione del virus può essere letale; non è per noi che dobbiamo tenere le distanze ed evitare le frequentazioni non necessarie: è per gli altri, per quelli che, se colpiti dal virus, rischiano di arrivare in Terapia Intensiva, a lottare contro la morte; non è per noi che dobbiamo rispettare le regole: è per i familiari di chi è debole, per i figli di un anziano già malato, per i familiari di chi ha patologie importanti, e che noi poi vediamo piangere nella sala d’attesa. Contenere il virus significa garantire a ciascuno di noi la disponibilità di un ricovero ad alta specializzazione, quando servisse». —
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia