Cineprime. Tutti i film sul grande schermo questa settimana

Dai fratelli Coen alla rivisitazione di Robocop fino al nuovo cinema italiano e ai “mostri sacri”: Redford diventa naufrago

A PROPOSITO DI DAVIS

Viaggio nelle nostalgie d’America tra i folksinger e Bob Dylan

Ai cultori dei fratelli Coen potranno far specie stile e ambiente di “A proposito di Davis”. Ma le chiavi di lettura che collegano i film dei fratelloni sono gli stessi, nostalgia e marginalità. L’atmosfera di dolce rimpianto verso un mondo che non c’è più accomuna infatti la New York dei primi anni ’60 dei folksinger al sud di “Non è un paese per vecchi” o al nord di “Fargo”. Con in più qui un omaggio, palpabile lungo tutto il film ed esemplificato nel finale, a un conterraneo del Minnesota, Bob Dylan. Partendo dalla biografia di Van Ronk scritta da Elijah Wald ed adattandola alla figura di Llewyn Davis (Oscar Isaac) i Coen disegnano un percorso circolare: il film si apre e si chiude infatti con un pestaggio in un vicolo del Greenwich Village, nel retro del Gaslight cafè, tra i tanti locali che allora divennero celebri per le frequentazioni musicali di folksinger di diversa estrazione e qualità. Finché non irruppe Dylan e con lui la chitarra e la musica divennero elettriche. La musica ha una centralità totale come in “Fratello dove sei?”, al pari del peregrinare acefalo del suo sfortunato protagonista, un “fratello scemo di Re Mida” che trasforma in “shit” ciò che tocca, come gli ricorda una delle sue amanti, che ha lasciato probabilmente incinta. Llewyn è uno dei tanti artisti “senza fissa dimora” che attraversa il Greenwich e New York poggiando il capo su qualche divano compiacente, per due o tre giorni. Finché un giorno gli tocca per compagno un soriano rosso, ad attenuare la sua solitudine. La sfortuna che lo perseguita e che in qualche modo si attira va di pari passo con i limitati successi discografici, accentuati dopo il suicidio del partner Mike. Il ritratto di un’epoca e di una società si estende su diversi mondi e ambienti, dal proletariato del porto dal quale proviene la famiglia alle attinenze ebraiche esemplificate da un senso di colpa venato di calvinismo e da numerosi candelabri a sette braccia nelle case borghesi che lo ospitano; al mondo delle canaglie discografiche consolidato in alcune figure, come il celebre Grossman (F. Murray Abraham) o la coppia di anziani impresari a pieno titolo nella galleria marginale dei Coen. Ma al di là delle citazioni di gruppi (Jean e Jim ricordano il trio Peter, Paul and Mary), brani (“Farewell” di Dylan) e immagini (la locandina riprende la cover di “The Freewheelin’ Bob Dylan”), resta un film magico, con un impianto registico e narrativo sofisticato, tra gatti, corridoi e vicoli, mostrato allo spettatore con naturalezza. (mi.go.) . Dur.: 105’ – Voto: ****

ROBOCOP

Un poliziotto mutilato diventa superuomo

Nel 1987, il visionario olandese Paul Verhoeven firmava un cult del genere cyber-fantascientifico, “RoboCop”, una delle prime contaminazioni tra carne e acciaio, tra uomo e robot. Ora il brasiliano José Padhila tenta un remake, restando a Detroit e partendo da presupposti narrativi simili - un agente di polizia mutilato in servizio viene reintegrato con protesi super tecnologiche – che tuttavia resta al di sotto, come spesso accade, dell’originale. Nel 2028 la multinazionale OmniCorp, leader della robotica, si offre di rimettere in piedi l’agente Alex Murphy (Joel Kinnaman), ma non fa i conti col persistere della sua coscienza. Ancora una volta i contrasti tra carne e metallo sono alla base del film, ma questa volta, pur nella condanna dell’esasperata invadenza della tecnologia, il film più che restare nella vicenda esistenziale di una “creatura” del futuro, senza identità, sconfina nella spettacolare esaltazione del superuomo (mi.go.). Dur.: 118’ - Voto: **

SMETTO QUANDO VOGLIO

Ricercatori umiliati inventano una droga

Felicissimo esordio alla regia di Sidney Sibilia (classe 1981) che, con “Smetto quando voglio”, realizza una commedia “criminale” sul precariato, mescolando tradizione italiana (“I soliti ignoti”, su tutti), il meglio della fulminante comicità televisiva (la serie “Boris”) e qualche suggestione da “Breaking bad” (altra fortunata serie tv americana). Con uno stile personale (cromie iper sature come in un lungo trip psichedelico), Sibilia racconta la storia di un manipolo di brillanti ricercatori, ultra trentenni, presi a calci dall’università e dal baronato accademico e costretti a sbarcare il lunario come benzinai e lavapiatti alle dipendenze di padroni cingalesi e cinesi o impartendo lezioni private a ricchi rampolli della borghesia di Roma. Uno di loro, il neurobiologo Pietro Zinni (Leo), fidanzato con Giulia (Solarino) che lavora al Sert, ha l’idea per svoltare: produrre una sostanza sintetica non classificata come stupefacente e spacciarla con l’aiuto di un chimico (Fresi), un esperto di macroeconomia (De Rienzo), un antropologo (Sermonti), un archeologo (Calabresi) e due linguisti (Aprea e Lavia, che litigano in latino). Faranno i soldi ma attireranno l’attenzione di un temibile spacciatore (Marcorè) oltre che della narcotici. Che la soluzione per la crisi di lavoro dei giovani sia proprio il carcere? Monicelliano. (m.c.) Durata: 105’. Voto: ***

ALL IS LOST

Redford naufrago nell’oceano

Nel mezzo dell’oceano, a 2.700 miglia nautiche dall’arcipelago indonesiano, un diportista (Robert Redford) lotta per la sopravvivenza dopo la collisione della sua barca con un container caduto da una nave. Fra tempeste, fame e sole che brucia la pelle, il naufrago affonda lentamente prima di scorgere (forse) dalle profondità del mare la propria salvezza. Il regista J.C. Chandor passa da un naufragio simbolico (quello del sistema capitalistico di “Margin call”, astratto e algoritmico) a quello fisico e fradicio di “All in lost”, in cui contempla l’uomo - nella sua accezione più universale (del protagonista non si conosce il nome né il passato) - alle prese con l’indifferente fierezza della natura. Non ci sono tigri con cui condividere l’esperienza, né palloni antropomorfi cui confidare il proprio tormento: l’uomo è solo nell’universo, sia che fluttui nella profondità siderale dello spazio (come Sandra Bullock in “Gravity”), sia che solchi la vastità dell’oceano. E, ironia della sorte, in entrambi i casi sono i resti della civiltà umana (lì cumuli di detriti spaziali, qui un container) a mutare, in peggio, le sue sorti. Redford, da solo sullo schermo per quasi due ore, oppone una resistenza silenziosa e faticosa al mare che culla e inghiotte, dona la vita e la toglie. Il finale, sospeso tra sogno e realtà, acqua e fuoco, non risolve ma, semmai, amplifica quella sensazione di irriducibile solitudine. (m.c.) Durata: 106’. Voto: ***

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